Seul, maggio 1980. Kim (Song Kang-ho) è vedovo, ha una figlia di 11 anni che tira su come può perchè lavora quasi tutto il giorno come tassista. E’ un po’ uno spiantato, un facilone, un ingenuo e per certi versi anche una persona meschina e miserabile, nel suo conformismo. Il paese intanto è scosso da tumulti: i giovani delle università stanno manifestando contro il governo dittatoriale del generale Chun Doo-hwan e proprio per documentare questa guerra civile, arriva in Corea il reporter tedesco Jürgen Hinzpeter (Thomas Kretschmann), che decide di pagare Kim una somma enorme per farsi portare dalla capitale a Gwang-ju, nel sud del Paese, teatro degli scontri più sanguinosi tra studenti e milizie. Il viaggio e l’avventura nel paese “reale”, cambieranno per sempre la vita di Kim…
L’elefante nella cristalleria della turbolenta storia recente della Corea del Sud si chiama Gwangju, una cittadina diventata per i cittadini coreani sinonimo di morte e terrore, il luogo dove vennero arrestati, torturati e massacrati centinaia di manifestanti, fra cui soprattutto ragazzi che frequentavano l’università. A Taxi Driver, opera che ha sbancato il boxoffice coreano, con un incasso superiore ai 90 milioni di dollari (decimo di sempre) spiazza: la prima mezz’ora, che quasi richiama la commedia all’italiana, si trasforma, nel giro delle due ore successive, in dramma storico, reportage giornalistico e persino action movie.
Questo continuo cambio di passo e di registro (si passa dalle chiacchierate “intime” in taxi alle scene di massa riprese dall’alto), permette a Jang Hoon di far comprendere la storia e la sua importanza allo spettatore, proprio come accade al protagonista, che da un iniziale (e comprensibile) atteggiamento conservativo e ponzio-pilatesco si trasforma in cittadino consapevole prima e “eroe” proattivo poi.
In un anno in cui il tema del giornalismo d’inchiesta è tornato di moda (vedi The Post), forse anche come valvola di sfogo e “memento” nei confronti di una stampa quotidiana che ha completamente perso il senso della misura, tra gallerie sexy, cronache youtubbiche e fake news, particolarmente interessante è il ruolo, seppur secondario, ricoperto da Hinzpeter, che ci ricorda che nell’era pre-internet, solo una voce “altra” rispetto a quella ufficiale poteva raccontare davvero come andavano le cose. E magari contribuire a cambiare la storia, cosa che dopo i fatti di Gwangju effettivamente avvenne.
A Taxi Driver non funzionerebbe così bene se in prima linea non ci fosse l’immenso Song Kang-ho, il più famoso e talentuoso attore coreano di sempre e indiscutibilmente uno dei migliori attori viventi oggi, a qualsiasi latitudine: un artista capace di indossare mille maschere, dal padre ritardato ma indomito di The Host al pensoso detective di Memories of Murder. Il suo tassinaro, un po’ Sordi e un po’ DeNiro, che ha passato la vita a osservare di sfuggita la realtà dietro a un finestrino, capisce la portata degli eventi di cui è inconsapevole testimone solo quando scende dal taxi e si mischia alle persone che combattono e resistono.
Che A Taxi Driver abbia colpito nel segno lo confermano gli incassi monstre ottenuti in patria e soprattutto il fatto che il vero Kim abbia deciso di svelare la sua identità, celata in tutti questi anni, solo lo scorso settembre, quando il film era già nelle sale. A Taxi Driver riesce a raggiungere il duplice obiettivo di intrattenere e informare: nonostante sul tema fossero già usciti un fumetto (26 Years di Kang Full uscito nel 2006) e libri (Atti umani di Han Kang, pubblicato da Adelphi e tradotto da Milena Zemira Ciccimarra), A Taxi Driver risulta forse ancora più efficace, nonostante una durata importante e qualche calo di ritmo. Gli Oscar lo hanno snobbato, anche se quest’anno la competizione è durissima, specie per quanto concerne la scelta del miglior film straniero, ma la visione, non si fosse ancora capito, è d’obbligo.
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