L’horror è forse il genere cinematografico più facile da approcciare – per la corposa antologia e l’elevata codificazione narrativa da rielaborare ad libitum – e il più difficile da mettere in scena – a causa della saturazione dei temi e delle figure che (ormai) ne fanno un genere a forte rischio stereotipia. E si sa che con la banalità e la reiterazione massiva non si spaventa nessuno. Tuttavia, nonostante il più delle volte la sensazione comune di fronte alla produzione horror sia quella del “già visto” o del “già detto”, esistono registi che hanno saputo e sanno infondere nuova linfa al genere investendo tutto sulla propria personalità, sul proprio sguardo, facendo dell’horror un genere dalla struttura estremamente convenzionale ma anche dalla natura intimamente disvelatrice. Insomma, se c’è un genere in cui l’impronta autoriale conta ancora moltissimo, questo è proprio l’horror.

Non è facile quindi, nel mucchio di produzioni – perlopiù mediocri – rilasciate nel corso delle stagioni cinematografiche, incappare nell’ “eccezione meritevole” o nell’opera che, conscia del corpus in cui si è andata a inserire, dimostra di possedere un buon pedigree e qualcosa di nuovo da dire, ma a guardar bene (e tanto) qualche felice incontro è ancora possibile.

Forse vi ricorderete di lui per la trilogia Rec, di cui diresse i primi due capitoli con Jaume Balagueró per poi realizzare il terzo in totale autonomia, ma Paco Plaza – regista spagnolo dal singolare gusto estetico – è tornato con una nuova e interessante pellicola (al momento disponibile su Netflix) intitolata Verònica. Il film, che tra i sottogeneri dell’horror opta per quello più riciclato e inaridito, è un demonic possession movie caratterizzato da un’atipica sobrietà e un delicato approccio intimista. Sceneggiato da Fernando Navarro, che di recente ha anche collaborato alla stesura di un altro curioso horror intitolato Muse (Jaume Balaguerò, 2017), il film racconta la complicata vita di Veronica, una quindicenne costretta a badare i fratelli più giovani mentre la madre vedova si barcamena tra turni di lavoro massacranti e lunghe sedute di sonno. Stanca di mantenere un profilo adulto e responsabile, la giovane decide di dilettarsi con le amiche in una seduta spiritica, durante la quale non mancherà di attrarre una creatura demoniaca, forse LA creatura demoniaca. Tra stranezze e apparizioni, Veronica tenterà di proteggere i suoi cari, mettendo a rischio la propria vita.

Il pezzo forte di Verònica è senza dubbio l’equilibrio e la ricerca di un realismo old style, frutto di un uso moderato degli effetti digitali e un recupero dell’analogico – che riecheggia anche nell’ambientazione anni Novanta. Nel descrivere, ad esempio, il momento della possessione, Plaza ammette di aver adottato la classica soluzione della bocca deformata dall’urlo, ma di aver anche optato per una deformazione mitigata, ambigua, tesa a ingannare il pubblico che si trattasse di un urlo esasperato ma possibile. Questo equilibrio tra reale e fantastico, tra tragedia truculenta e fiaba nera, ricorrerà in tutte le scelte (visive e non) del film, scelte che contribuiranno all’attuazione di un prodotto tanto classico – di vaga derivazione argentiana (Suspiria, Profondo Rosso) – quanto inedito e originale, perfettamente in grado di regalare qualche brivido e affascinare con una storia maledettamente attuale.

Veronica è una giovane donna schiacciata dalle responsabilità e incapace di respingere chiunque voglia approfittarsi della sua generosità. Il solo fatto di trasformare la sua acerba bellezza e il suo candore, che mai seduce ma al contrario rassicura, in una fonte inesauribile di incertezze è già di per sé una trovata che ha dell’inquietante. Come se la reazione adolescenziale, l’esigere attenzione e riappropriarsi delle proprie debolezze, potessero diventare autentiche minacce per amici e familiari. L’innocenza rende i giovani degli involucri da riempire, meglio non lasciarli soli con i loro pensieri, i loro crucci, i loro giochi pericolosi (specialmente se si tratta di tavole ouija)…



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