Ha l’effetto di un boato o di uno schiaffo il primo passaggio ad alto volume di Un posto tranquillo, il primo film horror del 2018 a far parlare molto e bene di sé, il primo a configurarsi come una visione imperdibile per i fan del genere (e non solo) di quest’annata.
Come spettatori ed essere umani ci adattiamo piuttosto velocemente ai cambiamenti (farceli piacere è un altro discorso), perciò basta seguire la famiglia Abbott in silenzio e in punta di piedi per un’oretta di pura tensione (e qualche passaggio vicino allo spavento vero e proprio) ed ecco che anche per noi un urlo, una parola detta ad alta voce o il fatale rumore di un oggetto che cade diventano drammatici, assordanti.

Il merito non è solo di un’idea semplice ed efficacissima che traina il film (se fai rumore, sei morto), ma anche a un horror che dialoga silenziosamente con un attributo troppo spesso ignorato in gesto genere di pellicola: l’intelligenza dello spettatore.
Rimanete in silenzio, restate vivi: questo è l’esortazione di uno degli ultimi quotidiani stampati nel 2020 da qualche parte negli Stati Uniti invasi da una misteriosa e letale forma di vita aliena. Corazzati e invincibili, velocissimi e dall’udito acutissimo, questi predatori più che crudeli sono indifferenti alle vicende umane. Possono individuare gli abitanti del pianeta solo attraverso il rumore e lo fanno con la costanza e la crudeltà anonima dei predatori.
Facciamo la conoscenza degli Abbott in un supermercato da cartolina dell’Apocalisse ormai avvenuta (vetri rotti, scaffali alla rinfusa, merci divenute preziose e medicinali da scandagliare), mentre scalzi si approvvigionano il più quietamente possibile di quel che possono. Un solo piccolo errore, un decibel di troppo ed è morte certa, come sanno i genitori e i due figlioletti.

Un posto tranquillo è la loro fattoria, dove coltivano il cibo e tentano di istruire i figli e godersi un po’ di vita di coppia. La tranquillità è però opprimente, forzata, la tensione è perenne: un rumore appena percettibile e già tutti si fermano, immobili, per vedere se arriverà una creatura a ucciderli. A tenere viva la tensione ininterrotta oltre a una regia attenta e a una sceneggiatura solidissima con un paio di svolte diaboliche non è tanto la minaccia della creatura letale al 100%, quanto la dimensione disumanizzante a cui costringe le sue prede.
Un mondo costretto al silenzio è un mondo in cui ogni espressione viene mediata, smorzata, soppressa: gioia, dolore e rabbia vanno ricacciate dentro a forza, anche e soprattutto se improvvise. Ridere, gridare, piangere sono componenti essenziali del vivere umano, ma sono anche l’anticamera della morte. Quella di Un posto tranquillo è la prigione perfetta che conduce alla follia, perché non ha pareti né sbarre, ma è assolutamente impossibile sottrarvisi.

È passato poco più di un anno da quando i sopravvissuti fanno i conti con questa nuova realtà e c’è già chi è pronto a pagare con la vita la possibilità di rivendicare ed esprimere la propria identità, ad alta voce. Voce che gela il sangue nelle vene, perché basta poco ad abituarsi al silenzio teso del film, sottolineato da una regia che affronta in maniera avveduta l’assoluta necessità di spiegare visivamente quanto avvenuto, non potendosi avvalere dei personaggi ridotti quasi al mutismo.
Da sceneggiatore e soprattutto regista, John Krasinski ha stravinto la sfida con il genere del brivido. Lo ha fatto girando un film che sfrutta nei giusti tempi e modi un’idea che ha del carattere, analizzata con un approccio intelligente e rigoroso, che pone ancora di più Un Posto Tranquillo in antitesi con gli horror tipo contemporanei, figli dell’epoca del jump scare esasperato.

Il lungometraggio è una summa di scelte così assennate e logiche che si esauriscono ben presto le cose da dire. Regia attenta e ben calata nel genere, produzione all’altezza, creature di realistica tattilità e dalla bellezza perversa (non sgorbietti CGI che ammazzano il potenziale pauroso del film), un quartetto di attori capaci. Del gossip e delle lodi alla protagonista leggerete altrove, io vi parlo dei due figli, già da promuovere per la loro capacità di essere giovani e un po’ sprovveduti senza diventare odiosi.
Noah Jupe ha tredici anni e nell’ultimo anno ha ricoperto ruoli importanti (quando non da protagonista) in film di rilievo e persino festivalieri. Per me è il bimbetto che dava punti a Matt Damon, annientandolo sul piano recitativo in Suburbicon.
Millicent Simmonds l’ha scoperta Todd Haynes e dopo Wonderstruck pensavo non l’avrei rivista per lungo tempo, per via del suo handicap uditivo che non la mette certo in cima alle scelte di casting tipo ad Hollywood. Invece qui incarna con grande bravura una delle svolte diaboliche del film: una ragazzina sordomuta e quindi ancor più in difficoltà, perché non ha modo di sentire i rumori, di capire quando è in pericolo. L’altro colpo di mano da maestro è un altro classico del genere che ha sempre visto la maternità come un elemento sinistro e che genera istintivamente paura, che un film del brivido può solo ampliare… e qui lo si fa molto e bene.

Anche se sul finale c’è una lieve sbavatura – ci si mette un po’ troppo a realizzare un’informazione davvero essenziale – che porta a chiedersi come un’umanità ben più intelligente della media horror non avesse sospettato nulla, la forza del film è proprio quella. Gli Abbott sono intelligenti ed accorti, capaci di pianificare il medio e lungo termine, ovviare ad ogni problema e attutire ogni rumore, eppure sono sempre a un passo dalla catastrofe.

In personaggi che ci tengono a rimanere vivi e che ragionano assennatamente è molto più semplice identificarsi, provare empatia e vivere con partecipata tensione quello che solitamente vediamo con distacco ilare e imbarazzato, suscitato da autentici idioti che si vanno volutamente a cacciare nelle peggiori situazioni immaginabili. Se il protagonista è in qualche modo lo specchio dello spettatore a cui si pensa di rivolgere il film, è facile intuire il successo di Un Posto Tranquillo. Un po’ meno la difficoltà con cui operazioni horror di questa serietà e levatura vedano gli schermi delle nostre sale.

Il blog di Elisa è GerundioPresente.



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