C’è qualcosa di strano se un gioco del 2005 ripubblicato nel 2018 ti spinge a parlare di ciò che è successo ai videogiochi negli ultimi anni più che del gioco in sé. O forse no. Mettiamo dei paletti, intanto. Non trovo (quasi) nulla di sbagliato nel fenomeno più o meno recente delle edizioni remaster. In fondo e riedizioni in un nuovo formato di film più o meno recenti, classici o boiate che siano, ci sembra da sempre un atto dovuto. Così è anche per i dischi, e in un certo senso persino per i libri. Allo stesso modo, dunque, non vedo perchè debba essere considerata negativamente a prescindere la costante disponibilità di videogiochi delle passate generazioni, anche alla luce della costante accelerazione – tecnologica, sociale, ideologica, etc… – a cui l’epoca in cui viviamo costantemente ci sottopone.
Nel caso specifico, poi, penso che nessuno possa avere riserve su una riedizione di Shadow of the Colossus, per diverse ragioni. Perché in fondo si tratta di una quelle poche opere seminali partorite dal medium videogioco dalla sua nascita. Perchè sono passati 13 anni dalla prima pubblicazione, ed è probabile che chi videogioca oggi non l’abbia fatto allora. Io stesso, che videogioco da oltre 30 anni e ho un Atari 2600 nel mio primo ricordo, all’apoca non l’ho giocato. Non ricordo cos’altro avessi da fare, so di aver comprato una PS2 a fine gen, di rientro nel mondo console, ma di non aver mai provato Shadow of the Colossus prima di questa versione per PS4. Shame on me.
Certo, si potrebbe invece parlare di come un gioco vecchio di 13 possa essere venduto da Sony come titolo di punta della propria line-up senza che nessuna voce critica si stagli, mentre alla concorrenza non si perdoni nulla da anni. Ma sono discorsi da console war spicciola che non ci piace fare. Ok, non è vero. Ma magari nel parliamo un’altra volta.
Oggi invece è più interessante parlare di cosa sia cambiato in Shadow of the Colossus nel tempo intercorso tra la sua realizzazione originale per mano di Fumito Ueda e il remake odierno firmato da Bluepoint Games. Cosa c’è di diverso, dunque? Le risposte possibili sono tre: tutto, dettagli, nulla. E tutte e tre egualmente valide.
Fatta salva una lieve modifica ai controlli che facilita la rotolata, la struttura portante del gioco è rimasta immutata dal 2005: stesso sistema di controllo, medesima interfaccia, null’altra modifica è stata apportata al telaio, dai menù alle meccaniche. Per chi come me tredici anni fa inseguiva la sua chimera, Shadow of the Colossus pone il giocatore nei panni di Wander, giovane disperato per la morte dell’amata Mono e disposto a scendere a patti con entità chiamate Dormin per riportarla in vita. Tutto ciò che dovrà fare affinché ciò avvenga è abbattere i sedici colossi che vagano nei dintorni del mistico santuario dove Mono giace.
Ciascuno scontro è di fatto una boss fight il cui scopo è trovare i punti deboli di un imponente colosso e colpirli ripetutamente, resistendo al contempo ai numerosi e diversi tentativi di disarcionamento. Tra un colosso e l’altro, il tempo passa in lunghe cavalcate sul dorso di Agro attraverso una landa algida e straniante, dominata dalla natura.
Tutto identico, dunque? Sì, e tutto diverso. Perché il nuovo comparto grafico trasforma le idee impressioniste di Ueda in un documentario in HD. La nebbia che nascondeva i limiti tecnici di PS2, ma contribuiva al contempo alla diffusione di un’atmosfera mistica e rarefatta, è stata inghiottita da un upgrade tecnologico che ha lasciato al suo posto texture ultra definite, morbida erba piegata dal vento e un orizzonte visivo che si estende all’infinito.
Mentre i colossi, un tempo concetti enormi ed indefiniti dai confini spigolosi, sono ora mostri hollywoodiani sui cui corpi è possibile distinguere ciascuno dei milioni di peli di cui sono ricoperti. Lo Shadow of the Colossus del 2018 è un luogo diverso, non più bello o più brutto, ma differente, che altera atmosfere e umori evocati dall’opera originale di Ueda.
La questione delle alterazioni conseguente all’adattamento a tecnologie moderne di opere dei decenni passati è un tema trasversale a tutta l’industria culturale. Qualche giorno fa su Twitter diversi autori di discutevano di come le storie degli anni ’80/’90, colorate tenendo a mente la resa sulla carta povera in uso allora, risultassero diverse oggi una volta ristampate in volume su carta patinata.
Per i videogiochi, però, questo è un tema particolarmente sensibile perchè legati per loro natura ad una evoluzione tecnologica esasperata ed indomabile. E se nel caso del tipico AAA serializzato eventuali alterazioni conseguenti all’adattamento tecnologico possono essere trascurate, non alterando in alcun modo un messaggio comunque non presente o fortemente sfuocato già alla fonte, di fronte ad opere autoriali come i giochi di Ueda è il caso di iniziare a porsi delle domande.
E lo stesso bisognerebbe fare nel momento in cui un gioco vecchio di 13 anni ci mette di fronte all’evidenza della brutta strada intrapresa dal game design nel frattempo. Come si è potuti passare dall’elegante essenzialità di Shadow of the Colossus, funzionale nonostante il bizzarro stratagemma del fascio di luce ad indicare la via, all’indecifrabile guazzabuglio di quest, sotto quest, punti di interesse e collezionabili che ammorba qualunque avventura moderna?
E ancora, spostando il focus dal contenitore al contenuto, come è possibile che anche una metafora semplice come quella di Ueda – che ribalta i ruoli e manda il suo eroe a compiere strage di colossi per un proprio tornaconto personale – abbia trovato così pochi epigoni disposti a seguire la sua strada? Col silenzio tombale che rifugge ogni celebrazione ome conseguenza a ciascun abbattimento di un nemico, sempre che i colossi possano essere considerati tali, Shadow of the Colossus dimostra quante capacità espressive del videogioco rimangano tutt’oggi colpevolmente inesplorate.
Finché domande di questo tipo non saranno superate, remake, reboot o remaster di opere seminali come quelle di Ueda dovrebbero essere considerati non solo auspicabili, ma più probabilmente necessari.
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