A breve (incredibilmente) nelle nostre sale passerà il film Upgrade (Leigh Whannell, 2018), fanta-action che, per quanto esile – o per meglio dire stilizzato – racconterà una delle più classiche storie di vendetta in maniera efficace e spedita, adattando a quella che probabilmente è la miglior prova attoriale di Logan Marshall-Green una narrazione ironica e spudorata, capace di rendere credibile un tipo di prodotto che oggi, per disponibilità economica e progresso tecnologico, è sempre più complicato mettere in scena: il B-movie. Con un distinguo, però…
Il B-movie, si sa, nasce come prodotto a basso budget cui si sopperisce aguzzando l’ingegno e proponendo una serie di trovate (visive e non) in grado di raccontare con originalità una storia spesso non particolarmente originale. Storicamente molte buone idee impiegate nei B-movie hanno creato precedenti tali da essere in seguito largamente riutilizzate, cosa che ha fatto di tanti piccoli film veri e propri fenomeni di culto.
Allo stato attuale è possibile rilevare che lo sforzo impiegato per produrre B-movie, data appunto la possibilità di realizzare prodotti di un certo livello anche in situazioni amatoriali e soprattutto data la ri-significazione del finto e posticcio a opera di registi come Quentin Tarantino, sia lentamente migrata dalla matericità del profilmico all’ideazione del prefilmico (soggetto, sceneggiatura, soluzioni di ripresa, scelta degli attori), tradendone la manifattura, ma non la missione, che resta quella di intrattenere sfacciatamente.
Vero è che se il B-movie ha in parte perduto quella sua estetica artificiosa e kitsch, altrettanto vero è che il passaggio a strutture narrative meno pratiche e malleabili che, di fatto, ha espropriato la manovalanza cinematografica (gli esecutori materiali) di un compito che ora sembra appannaggio degli ideatori, figure più qualificate sul fronte della significazione (produttori, autori, maestranze di alto profilo), ha dato il via a una nuova generazione di film a basso contenuto impressivo, ma ad alto tasso di ipertestualità. Le citazioni e i riferimenti – che siano essi visivi o uditivi – hanno infatti la capacità di rendere questi film semplici e minimali anche piuttosto stratificati e perciò adattabili a diversi target (a differenza dei B-movie di vecchia generazione). Il riciclo, insomma, non è più questione di materiali, ma di ambiti, di immaginari.
Per Upgrade, che sicuramente appartiene a questa nuova categoria di prodotti, può essere fatta un’ulteriore considerazione. Se rispetto alla natura basic della sua estetica e alla (per così dire) verve citazionistica – della quale Il Giustiziere della Notte (Michael Winner, 1974) e RoboCop (Paul Verhoeven, 1987) restano i riferimenti più accreditati – non possa che essere considerato un B-movie in piena regola, per ciò che concerne il contenuto, quel quid informativo che distingue i prodotti insulsi da quelli che hanno “qualcosa da dire”, esso sembra conformarsi più alla comunicazione episodica di una serie tv che non a un lungometraggio. Questo accade non tanto per la brevità del minutaggio – requisito che peraltro contraddistingue quasi tutti i B-movie – ma per l’attenzione posta su alcuni elementi della narrazione a discapito di altri.
In genere il B-movie crea un’aura intorno ai personaggi poiché riserva un trattamento speciale agli esistenti, Upgrade invece, come le serie antologiche sembra concentrarsi più sugli eventi e le costruzioni di genere rarefacendo gli ambienti e minimalizzando i personaggi. Proprio come accade negli episodi della serie Black Mirror (Charlie Brooker, 2011-), in cui il vero protagonista resta la fantascienza, l’importante è il come e il quando e non il chi e il dove. Lo scopo, allora, sembra essere quello di occuparsi delle astrazioni più che delle azioni, del virtuale più che del reale, in cui il corpo appare sempre di più un fardello a cui rinunciare per accedere a nuove forme di identità e a nuove modalità di interazione. E Upgrade pare comunicarlo forte e chiaro.
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