Al termine della Golden Age of Science Fiction, il panorama sci-fi letterario cominciò ad assistere alla nascita di nuove formule sperimentali. Stilemi e concept largamente rodati dai grandi letterati del passato funsero da genesi per una nuova frontiera di topos narrativi, corroborati non solo da nuovi espedienti, ma soprattutto da nuove introduzioni stilistiche. Indubbiamente, uno degli autori che meglio ha saputo cogliere appieno i frutti di questa evoluzione è William Gibson, padre putativo del sottogenere Cyberpunk. Reso celebre dalla sua Trilogia dello Sprawl (Neuromancer, Count Zero e Mona Lisa Overdrive), ma anche dalla meravigliosa Trilogia del Ponte, Gibson è riuscito a imporsi come uno dei creativi più visionari, distopici e indubbiamente transumanisti della storia contemporanea.

Non occorre precisare quanto la penna dello scrittore americano abbia influenzato gli approcci moderni alla sci-fi. Forte di un Nebula, di uno Hugo e di un Philip K. Dick Award per il suo Neuromante, Gibson cominciò a ricevere attenzioni da diversi studi cinematografici,fra cui proprio 20th Century Fox, detentore dei diritti di quel Alien che senza troppi epiteti rappresenta per fanta-horror ciò che Gibson ha rappresentato per il cyberpunk. Un’opera che nel suo corpus ha definito non solo uno standard concettuale, ma persino estetico, influenzando qualsivoglia altra produzione oggi vagamente riconducibile allo stile dell’opera di Ridley Scott. Una sfida, la scrittura di un terzo capitolo, a cui Gibson non poteva sottrarsi.

Nonostante la paternità della prima comunione fra horror e fantascienza vada ricercata altrove (Terrore nello spazio di Mario Bava per citarne uno), è indubbiamente Alien ad aver sdoganato – per non dire plasmato – una nuova forma mentis cinematografica. La gestazione del terzo lungometraggio del franchise è stata una delle più travagliate che la storia del cinema ricordi: mentre soggetti e script veniva costantemente rivisti, ambientazioni surreali e teologia sostituivano la forte cifra stilistica che aveva contraddistinto l’Aliens di James Cameron, unanimemente riconosciuto come il più apprezzato da pubblico e critica. Ciononostante, la troppo limitata presenza in scena della protagonista, Ellen Ripley, portò la produzione ad accantonare a tempo indeterminato la sceneggiatura firmata da William Gibson. Il risultato che ne seguì è quello noto al grande pubblico; un film divisorio, ma che in tutta onestà rappresenta egregiamente la terza incarnazione del brand. Eppure il cinema non è l’unico medium ove la creatura partorita dalla folle mente di H.R Giger è approdata. Anzi, per quel che può valere in tempi recenti è stato il fumetto sublimare il sinistro Xenomorfo in tutta la sua forma e sostanza.

Fortunatamente, proprio quello script è stato di recente ridestato dal sonno siderale e adattato a opera fumettistica, andandosi ad aggiungere al grande universo cosmologico di narrazioni dedicate alla razza più letale dell’universo. Edito in patria da Dark Horse Comics e distribuita in Italia da Saldapress, Alien³ si presenta in una forma magnifica, mostrando nei primi due albi finora editi, all’interno del numero 30 della testata dedicata alla xenomorfo, un preludio sfumato e carico di significato, limitando all’essenziale la presenza della razza aliena. Gibson già con il suo Archangel (IDW 2016 – Magic Press 2017) ha dimostrato di trovarsi a proprio agio con il medium fumettistico, mostrando anche attraverso le matite di Johnnie Christmas e i colori di Tamra Bonvillain, un palinsesto rinnovato e conforme agli archetipi del primo lungometraggio, sostituendo per il momento la superficie di LV-426, con gli interni di una stazione orbitale che de facto, riporta la narrazione di Alien nuovamente nel vuoto.

Ciò che traspare nell’immediato è la persistenza degli eventi lasciati in sospeso con la conclusione di Aliens; segno distintivo che la sua scrittura fosse destinata ad altro. Ritroviamo infatti Ripley, Hicks e la piccola Newt, tutti ridestati forzatamente dal criosonno. Ma soprattutto ritroviamo lei, la U.S.S Sulaco, la nave sui cui Ripley e i Colonial Marines viaggiarono nel film di Cameron. È proprio la nave spaziale ad aprire il sipario della narrazione, innescando la lunga serie di eventi che fungeranno da prologo per l’intera storia. Come accennato poc’anzi, in queste prime pagine c’è una quasi totale assenza degli esseri alieni, ed è ben chiaro il motivo. La storia ha un suo ritmo, un tempo ben ponderato, che rispecchia appieno la metrica narrativa di Gibson. Un solo facehugger e di conseguenza un solo chestburster, ma momentaneamente nessuno xenomorfo.

Gibson vuole chiaramente mostrare altro. Vuole impiegare le vignette a disposizione per dare spazio a elementi narrativi mai visti nelle due precedenti opere cinematografiche, come il chiaro corporativismo che traspare in alcune comunicazioni. La presenza di imponenti e influenti corporazioni sono uno dei fondamenti della grammatica cyberpunk, ed è osservabile come Gibson rimescoli ciò che si sapeva all’epoca della Wayland-Yutani per mutarla in una società predatoria, i cui interessi socio-economici vanno al di là di qualsiasi convezione nota all’uomo. Non a caso qua e là appaiono brevi ma chiarissimi accenni geopolitici, menzionando una possibile escalation nucleare con “un’unione di popoli progressisti” in caso di violazione di un trattato sulla messa al bando degli armamenti biologici.

Abbiamo quindi già raccolto un’interessante mole di contenuti e congetture ai tempi del tutto alieni al franchise. Tutto ciò assume un valore aggiunto non appena la squadra mostrata nel prologo recupera i resti del celebre androide Bishop. Dai suoi archivi di memoria apprendono della sorte spettata ai marines coloniali in Aliens, venendo di conseguenza a conoscenza della razza aliena. A quel punto, in maniera non troppo dissimile da quanto visto nell’opera a fumetti Aliens di Mark Verheiden e Mark A. Nelson (primo vero sequel del film del ’86), la compagnia delinea un obiettivo fin troppo chiaro: impossessarsi della razza aliena per poterne realizzare un’arma. Subdoli e fin troppo capitalistici giochi di potere, che in questi primi volumi hanno maggiore rilevanza rispetto ai stessi xenomorfi. Voler piegare la natura cosmica ai propri voleri potrebbe trasformarsi in un potenziale atto catastrofico; un’alterazione di equilibri ben più alti della razza umana stessa.

I volti dei personaggi noti sono chiari e ben distinti, anche grazie alla mano dell’illustratore, Johnny Christmas che non si concede particolari virtuosismi, ma delinea un setting semplice eppure allo stesso tempo affascinante, dando maggiore risalto all’ambiente piuttosto che ai suoi personaggi, comunque ben rappresentati. L’incisività delle tavole gode inoltre dall’estro della sua colorista, Tamra Bonvillain, che sceglie un approccio minimalista, ricorrendo a colorazioni leggere, quasi a pastello, dando al contempo maggior risalto a tonalità più fredde, come il blue, preponderante nella visualizzazione degli interni ed esterni dell’astronave.

Questo primo appuntamento riesce ben a distinguersi da quello che è stato il film diretto da Fincher, mostrando contorni ed elementi utili per comprendere appieno la commistione stilistica fra la penna di William Gibson e il setting concepito dal sottovalutato Dan O’Bannon. Una storia finora intrisa di mistero e sostanza, che non si preoccupa di non mostrare immediatamente ordalie di alieni dal sangue acido, ma che tenta di porre il lettore dinanzi all’avidità e alla sfrontatezza dell’essere umano.



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