Prima che l’onda corta della premiazione degli Oscar – che lo ha lasciato a secco – se lo porti definitivamente via, demandando allo streaming il compito di segnalarlo sulle home delle piattaforme online (Netflix), ci tengo a sottolineare quanto Il Processo ai Chicago 7 (Aaron Sorkin, 2020) sia, a prescindere dalla certificata qualità di scrittura, un film intelligente ben oltre le sue suggestioni formali e interpretative, conseguite grazie a una ricostruzione attenta e un cast stellare, con la sua cronistoria scandita e precisa e la sua recitazione vigorosa e convincente.
Il film, a mio avviso, funziona soprattutto per l’abilità con cui si sgancia dal contesto in cui è calato, sostenendo la rarefazione delle contingenze storiche che hanno condotto a quel processo e concentrandosi perlopiù sulla natura universale dei concetti trattati – posti all’interno di un serrato dibattito tra istanze ideologiche – e la capacità di riflettere su sé stesso con un occhio rivolto a un passato (rivedibile) e l’altro rivolto a un futuro (presumibile).
Lo sceneggiatore/regista, perciò, non si limita a mettere in scena il noto processo (politico) in cui un gruppo di attivisti della controcultura è stato accusato di aver fomentato la rivolta alla Convenzione Nazionale Democratica di Chicago nel 1968, ma sceglie di portare il dibattito oltre l’aula di tribunale, dislocandolo nelle strade tra i manifestanti, nei dipartimenti ufficiali o improvvisati, nelle dimore sempre meno “sicure” dei civili, mostrandoci l’anima eterogenea di una società in fermento.
Il Processo ai Chicago 7 è perciò tutt’altro che un film storico nel senso tradizionale del termine, ma è piuttosto una metafora sempreverde sulle strutture che fissano e sostengono il concetto di Giustizia, strutture che con il tempo si deteriorano e diventano instabili, richiedendone verifica e risanamento. In esame, quindi, non ci sono solo i circuiti giuridici entro i quali si stabilisce il limite tra la rivendicazione dei diritti e l’osservanza dei doveri, ma anche tutti quei luoghi di confronto etico – dalle strade di periferia, passando per i salotti della classe media, fino alle aule universitarie – che danno vita e che hanno il potere di riformare quei circuiti e l’intero establishment.
Tutti questi luoghi di scambio diventano, per mano di Sorkin – e Spielberg, ricordiamoci che ha supervisionato il progetto, e si vede – autentici palchi teatrali, revolving stage tenuti insieme da una riflessione generale sulla mutabilità di ciò che consideriamo vero e giusto, il tutto reso a suon di monologhi e botta e risposta di volta in volta toccanti, esilaranti, sconcertanti, opprimenti e pure retorici. Una vera e propria concertazione di esigenze individuali e sociali che cambia continuamente nei toni, nei ruoli e negli strumenti impiegati per esprimerle.
Il risultato è un film intenso, appassionante, capace di stimolare riflessioni utili anche e soprattutto rispetto all’attualità che continua a essere un terreno scivoloso quando, in tema di democrazia, si prova a mettere a confronto teoria e pratica, parole e fatti, rilevando una difficoltà crescente nell’individuare e includere nuove voci, nuove possibilità, ma anche nuovi obblighi (di cui la deposizione di Hoffman/Sacha Baron Cohen resta una perfetta e sempre valida testimonianza).
La domanda che ci suggerisce il film, allora, non è tanto se quel processo fece giustizia nonostante tutto – questione piuttosto ovvia – ma se quelli che la ottennero sarebbero oggi pronti a barattarla con una giustizia diversa, più adatta ai giorni nostri, perché il progresso si realizza solo se siamo pronti ad accoglierlo…
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