Chiedere “Qual è stato il peggior anno di sempre nella storia dei videogiochi?” a un appassionato che ha iniziato a giocare agli albori di questo medium, nei primi anni ’80, quando arrivarono sul mercato le prime console ad ampia diffusione (Atari 2600, Mattel Intellivision, Colecovision) e i primi home computer (le macchine Sinclair come lo ZX80, 81 e Spectrum e quelle Commodore come il Vic 20 e il Commodore 64, per tacere della dozzina di hardware prodotti da aziende che speravano di dominare il mercato) fino all’anno scorso avrebbe comportato una risposta piuttosto prevedibile: il 1983, anno in cui si rischiò per davvero di veder estinto sul nascere l’intero fenomeno (per ragioni che non staremo a spiegare, ma basta googlare “Videogiochi/Crisi/1983” per avere tutte le risposte del caso).

Ecco, credo che d’ora in poi sarà necessario rivedere la risposta e affermare, senza troppe incertezze, “il 2021”, per svariate ragioni.

La prima, prosaicamente, è quest’anno di giochi veramente buoni ne sono usciti pochissimi e molti di quelli attesi, dopo essere stati indegnamente pompati dalla stampa specializzata, si sono rivelati meno validi del previsto (il primo esempio che mi sovviene è Ratchet & Clank, venduto come rivoluzionario e che può essere al massimo considerato un buon titolo con alcune eccellenze sul lato tecnico). I candidati a GOTY dei recenti The Game Awards ne sono lo specchio più evidente, probabilmente nessuno di essi sarebbe entrato nel roster degli anni “buoni”. I titoli migliori di Microsoft sono state le ennesime reiterazioni di franchise decennali (valide eh), Nintendo ha traccheggiato, avendo sparato molte delle sue cartucce migliori negli anni scorsi, Sony ha rimandato al 2022 molte uscite top e ha dimostrato nei fatti il contrario di quanto affermato prima del lancio di PS5, quel risibile “Crediamo nelle Generazioni”, proponendo quasi solo titoli cross-gen. Di giochi realmente originali se ne sono visti pochissimi, soverchiati da remake e reboot, spesso tecnicamente indegni (vedi la collection di GTA). Certo, il Covid ha colpito molto più duramente di quanto ammesso dalle case produttrici e i tempi di creazione di un titolo si stanno dilatando a infinito, ma che i tripla AAA stiano deludendo è un dato di fatto. Quanto agli indie, ammetto di non essere la persona più adatta per parlarne, perché per me il gameplay è sempre stato più importante dall’aspetto narrativo e la maggioranza degli indie punta sullo storytelling e meno su gameplay, level design ed elementi che un tempo erano indispensabili centrali, specie nei generi classici (un qualsiasi platform, beat’em up o shooter degli anni ’90 straccia gli epigoni attuali).

Poi c’è la questione dell’hype, che negli ultimi tempi ha raggiunto dimensioni tanto mastodontiche quanto demenziali. Si dice spesso che l’attesa è sempre superiore all’evento, ma oramai abbiamo raggiunto livelli grotteschi, con titoli per i quali si accumulano talmente tante aspettative da risultare inevitabilmente deludenti, una volta arrivati sul mercato e chiaramente incapaci di soddisfare le attese di una comunità ludica dopata e incoerente, visto che poi piazza in testa alle classifiche di vendita sempre i soliti quattro titoli in croce.

Un’ altra colonna portante del 2021 ludico è stata la “tossicità” dell’ambiente delle aziende che vi operano che, toh, è identica a tutte le altre realtà lavorative di questo mondo. Chi l’avrebbe mai detto? Su questo tema devo ammettere di provare un certo stupore nei confronti dello sbigottimento di chi si indigna, come se il “magico mondo dei videogiochi” fosse immune da dinamiche del genere. I videogiochi sono prodotti, le aziende puntano al profitto ad ogni costo, con espedienti cinici (e spesso ampiamente supportati dalla comunità ludica, vedi le microtransazioni) e quante più persone lavorano ad un progetto ludico, tanto maggiori sono le possibilità che tra di esse ci siano delle teste di cazzo. Temo che molti confondano ancora il prodotto finito con il produttore.

Altra costante che accompagna il medium è il livello, spesso imbarazzante, del giornalismo che lo racconta e commenta. Storicamente, il livello del giornalismo legato ai videogiochi è sempre stato piuttosto basso, anche se per ragioni diverse. Ai tempi della Golden Age, i recensori e “giornalisti” erano prima giocatori e appassionati e poi “professionisti”. Basta riprendere in mano un vecchio numero delle riviste del tempo e rileggerle ora, per scoprire un mondo fatto per lo più di giudizi dati ad minchiam, simpatiche cazzate redazionali e assoluta incapacità di andare oltre i quattro pilastri fondanti di ogni recensione (grafica/sonoro/giocabilità/longevità).

Nel corso degli anni la situazione è migliorata, un po’ perché i videogiochi si sono evoluti (hai voglia, a fare l’esegesi di Burger Time, Frogger o Dig Dug) e un po’ perché alcuni (pochi) appassionati, invecchiando, hanno preteso analisi e approfondimenti, prima impensabili. Purtroppo, dopo un iniziale e netto miglioramento, quando ancora c’erano le riviste cartacee (basti ricordare il livello eccelso degli articoli e delle recensioni di Super Console), c’è stato un ulteriore crollo, legato alla ottusa volontà di chi produce informazione di piegarsi ai desideri delle masse, invece di provare a tenere la barra dritta e fungere da guida per i propri lettori.

Oggi, specie in Italia, manca, ad esempio, un sito che stia al videogioco come Ultimo Uomo sta allo sport: quando si cerca di approfondire, si scade spesso nell’autoreferenzialità e quando si lavora con l’ordinaria amministrazione si finisce a popolare la sezione news di un sito con articoli incentrati su cosa ha mangiato Pokimane, cosa ha sognato Amouranth, meschine esche clickbait che fomentano la console war invece di ignorarla e crociate da social justice warrior della domenica, spesso totalmente decontestualizzate. Su questo, onestamente, ho pochissime speranze per il futuro, sul resto si vedrà, adesso torno a giocare a Sackboy – Una grande avventura, piccolo gioiello del 2020 rifinito in ogni comparto, che ovviamente non si è filato nessuno, in assoluta coerenza col mood di questo dimenticabile 2021…

 



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Andrea Chirichelli

Classe '73. Giornalista da tre anni, ha offerto il suo talento a riviste quali Wired, Metro, Capital, Traveller, Jack, Colonne Sonore, Game Republic e a decine di siti che ovviamente lo hanno evitato con anguillesca agilità. Ha in forte antipatia i fancazzisti, i politici, i medici, i giornalisti e soprattutto quelli che gli chiedono foto.

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