Sembra un piccolo incanto in bianco e nero: la Parigi di fine anni Cinquanta con le sue ombre allungate, le luci dei lampioni che proiettano silhouette sulle facciate dei café. C’è un mondo pronto a cambiare, nell’ouverture di Nouvelle Vague. Quello del cinema, ovviamente: nelle sale e alle feste puoi incontrare mostri sacri di quella nuova ondata che ruppe le tradizionali convenzioni filmiche come Claude Chabrol (Antoine Besson) e François Truffaut (Adrien Rouyard). E mentre I quattrocento colpi trionfa a Cannes nel ’59, Jean-Luc Godard (Guillaume Marbeck), ancora giornalista dei Cahiers du cinéma, ambisce al grande salto dietro la macchina da presa di un lungometraggio.
Richard Linklater crea un omaggio stilistico prima che culturale alla Francia cinefila di quegli anni. C’è qualcosa di ipnotico nel modo in cui la macchina da presa indugia sugli interni e sui manifesti attaccati ai muri: frammenti di storia, ma soprattutto la spontaneità di quell’universo.
La grana vintage e il bianco e nero fanno il resto, forse. Perché va detto subito che la fedeltà storica, quasi elettrizzante sulle prime, nella prima parte del film indulge a toni cinefili vagamente celebrativi: Linklater ci mette molto studio, ma quanta naturalezza?
Il rischio di un sapore artefatto è dietro l’angolo, la scintilla sembra rimanere tale, incapace di accendere un interesse genuino. Eppure, Linklater riesce a suggerire – senza strafare – come il genio creativo sia fatto di ripetizioni, di prove, di gesti apparentemente insignificanti che costruiscono il mito. E probabilmente è la calma dei movimenti di macchina che aiuta Nouvelle Vague a trasformare l’illustrativo in fascino.

Come Godard arriva a creare À bout de souffle è raccontato con una forma di affetto che ricorda le lezioni di storia del cinema all’Università. La portata eversiva del movimento che stravolse il cinema è spiegata con ordine, in modo chiaro. Forse non davvero vissuta.
Un film fatto per piacere? Soprattutto ai francesi? La domanda è legittima anche perché, prima di passare nella sezione Perlak del Festival di San Sebastián, il film è andato in concorso a Cannes 2025.
Così, il risultato finisce per brillare soprattutto nei momenti più intimi: gli sguardi tra Godard e Jean Seberg (Zoey Deutch), i pochi attimi di silenzio condiviso sui set, le passeggiate. Lì la magia emerge con meno didascalismi: il mondo esterno entra nel set, le inquadrature sembrano più casuali.
Nouvelle Vague scorre come una rievocazione elegante, senza scossoni, porta d’ingresso per neofiti curiosi e gustoso dessert cinefilo per alcuni (ma non tutti) gli appassionati.
Marbeck è un Godard vulnerabile e anticonformista che coltiva un vago livore per il successo dei colleghi. Aubry Dullin dà vita a Jean-Paul Belmondo boxeur pronto a trasformarsi in star: ha i tratti più affilati ma lo stesso spirito. La Deutch è impeccabile, una Seberg più determinata che fragile. È sempre magico vedere icone del passato reinterpretate da attori contemporanei. Richard Linklater lo sa molto bene, e non ne fa statue da museo.

La passione del regista ne esce intatta. Parigi e il cinema sono luoghi da esplorare, ma è chiaro che la loro storia è già scritta: non hanno il brivido dell’ignoto, nemmeno simulato. Ecco perché la lezione di cinema del regista è leggera e misurata. Vive di nostalgia elegante. Chi cerca l’energia turbolenta della Nuovelle Vague deve cercare altrove. Chi si compiace di uno sguardo sincero anche se deferente, invece, si prepari a quasi due ore di delizia.
Se ti piace quello che facciamo, puoi supportarci (o offrirci una birra) comprando musica, giochi, libri e film tramite i link Amazon che trovi negli articoli, senza nessun costo aggiuntivo.
Grazie!

