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Prometheus: Storia di uno xenomorfo

Non servono sottotitoli, non ci sono tagline iconiche e non c’è neppure un numero dopo il titolo, Prometheus è qualcosa di completamente nuovo e differente rispetto a quanto si possa immaginare e a quanto vorremmo trovare di fronte ai nostri occhi.

A trentatre anni di distanza dal film che ha ridefinito il concetto di fantascienza, Ridley Scott ritorna sul luogo del delitto, questa volta svecchiandone paradigmi e dogmi e aggiungendo un nuovo tassello all’interno dell’universo xenomorfo. È bene mettere in chiaro sin da ora che il film è un prequel di Alien nella stessa misura in cui da questo ne prende le distanze, perché se è vero che il design è sempre opera di Giger, è altrettanto vero che non ci troviamo più di fronte ad una commistione tra sci-fi ed horror. Questa è fantascienza pura, senza fronzoli e senza derive di alcun genere e come tale si comporta.

Quarant’anni prima della spedizione della USS Nostromo, l’equipaggio della Prometheus si avventura nello spazio alla ricerca del significato della vita e della morte. Il miracolo della creazione e dell’evoluzione sono i temi portanti dell’intera opera: chi siamo e da dove veniamo. E Ridley Scott fornisce solo poche risposte concrete a tutte queste domande.

Partendo dallo studio di pittogrami e altre opere scultorie realizzate sin dall’antichità, il gruppo di scienziati guidati dalla dottoressa Shaw parte per una spedizione verso un apparentemente desolato pianeta dove, per la prima volta nella storia dell’umanità, entreranno in contatto con forme di vita aliene. Prima della Weyland-Yutani Corporation così come la conosciamo oggi e prima del coraggio di Ellen Ripley c’erano soltanto paura e insicurezza (ben espresse dal Peter Weyland interpretato da Guy Pearce) e in questo contesto bisogna guardare al film, come un’enorme nube dalla quale una volta usciti non sapremo cosa o chi ci troveremo di fronte. Giocando sul sottotesto mitologico — Prometeo è il titano che donò il fuoco all’umanità e gli dei lo condannarono ad un eterno supplizio — come pretesto per raccontare il lato umano di un pianeta completamente desolato e privo di umanità, Prometheus finisce per avere molti più punti di contatto con l’altro figlio di Scott, Blade Runner, insieme ad un’altra delle icone del cinema di fantascienza 2001: Odissea nello spazio, a cui la prima parte del film paga un pesante tributo, che non con l’Alien datato 1979.

Artefice, almeno in parte, di tale cambiamento è stato senza dubbio alcuno Damon Lindelof in fase di sceneggiatura, che ha avuto l’onere di riscrivere ciò su cui, nel 2009, aveva iniziato a lavorare Jon Spaihts, rendendo credibile l’intero contesto e donando nuova linfa e carisma ad un franchise che sembrava morto dopo i due spin-off con protagonista anche il Predator, usando come chiave di volta lo scontro tra sacro e profano (estremizzando, il movente e fine ultimo è proprio la ricerca di un dio, non inteso come divinità da venerare, ma come creatore).

Alle carenze dello script, minato da alcune insicurezze nel corso dellle due ore — si avverte parecchio lo stacco tra quanto avviene prima della scoperta e gli eventi che da essa invece scaturiscono, così come background e finalità di alcuni personaggi sembrano iscritte nella pietra dal momento in cui appaiono sulla scena — sopperiscono quasi completamente le interpretazioni di Noomi Rapace (Elizabeth Shaw) che conferma le più rosee aspettetive e non uscendo per niente sconfitta dal confronto con l’icona Sigourney Weaver, finendo anzi per oscurare completamente l’algida Charlize Theron, probabilmente rimasta in camera criogenica durante il corso delle riprese, Idris Elba in versione capitano coraggioso e Logan Marshall-Green.

E poi, e sarebbe un crimine non parlarne, c’è David, il nuovo androide della Weyland corporation che Michael Fassbender interpreta con asettica perfezione e movenze da lord inglese (con tanto di ossessione per Peter O’Toole), andandosi ad affiancare al più famoso Bishop interpretato da Lance Henriksenn. Il resto del merito, perché è ancora troppo presto per parlare di successo, va attribuito a Ridley Scott, che dirige da buon mestierante, alternando i momenti di calma a quelli di tensione, in un crescndo costante che culminerà con l’immancabile prospettiva di un sequel.

L’unico vero nemico del film, altrimenti piacevole e ben orchestrato, è Avatar. Il film di James Cameron, se visto nell’ottica fantascientifica, fa poca fatica a trionfare in uno scontro già vinto in partenza (anche la scelta del 3D risulta poco azzeccata, per quanto ben implementato non aggiunge praticamente niente al film, risultando anzi un di più probabilmente dettato da leggi di marketing più che stilistiche).

Prometheus non è il miglior film di fantascienza del ventunesimo secolo e neppure ai livelli iconici di Alien e del relativo seguito (e torniamo ancora una volta su Cameron), ma è per il momento il miglior film del 2012, capace di intrattenere, divertire e incuriosire per quelli che potrebbero essere gli sviluppi futuri della saga, dio del box office permettendo.



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