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Man of Steel: storia di un (super) eroe

Non era facile. No, non era affatto facile riprendere in mano il supereroe più obsoleto della storia dei comics, cinematograficamente azzoppato da un tentato reboot finito male, ricordato per poche pellicole memorabili nella sua storia (il primo episodio e “mezzo” di Donner) e umiliato sia dai recenti blockbuster superspettacolari made in Marvel che dai Batman autoriali e introspettivi. Snyder, Nolan e Goyer (il primo in cabina di regia, gli altri sceneggiatori) partono bene, continuano meglio ma s’inceppano proprio sul più bello.

A ben vedere, stavolta, i presupposti per un filmone c’erano tutti, a cominciare da quel teaser “malickiano”, che prendeva in prestito una manciata di secondi della indimenticabile ost tolkeniana di Howard Shore, per proporre un mix di musica e immagini che, con pochi tratti, dipingevano un eroe nuovo, sensibile, introspettivo, un Superman mai visto prima.

A differenza dall’iconico personaggio rappresentato nel film del 1978, che affrontava ogni salvataggio con il sorriso sulle labbra e da quello proposto da Synger nel 2006 (che essendo un omaggio alla pellicola del ’78 ne era quasi una copia conforme), il Clark Kent di Nolan è un migrante, un apolide che vaga di città in città per evitare che i suoi poteri vengano scoperti “dalla gente”. Cavill se la cava egregiamente, non sente il peso dell’improponibile confronto con Reeves e offre viso e muscoli ad un eroe proletario, ben educato dai saggi Crowe (su Kripton) e Costner (sulla Terra) che sì, ha il tutino d’ordinanza con la grande S stampata sopra ma che, insomma, vive tranquillo anche in abiti civili.

Chi contrapporre ad un eroe finalmente credibile? Un villain degno di tal nome. E, fortunatamente, lo Zod interpretato da Michael Shannon lo è. Non è carismatico come Terence Stamp , nè istrionico come l’Hackman degli anni ’70, ma grazie ad uno script capace di mettere in luce i suoi lati oscuri e che lo tiene a debita distanza dal rischio macchietta, il nuovo Zod fa paura. E tanto basta. Anche il personaggio di Lois Lane (brava Amy Adams) è figlio dei giorni nostri. Poche smancerie, romanticismo ridotto ai minimi termini.

Per una volta, la regia di Snyder appare decisamente “tranquilla” e misurata, anni luce distante dalle marchiane ed esagerate ostentazioni che avevano caratterizzato pellicole come 300 o Sucker Punch. Tutto quello che viene perso in termini di cifra artistica e riconoscibilità, si guadagna in senso del ritmo e genuina spettacolarizzazione, non più totalmente dipendente solo ed esclusivamente agli effetti speciali.

Purtroppo, laddove la stragrande maggioranza delle scelte è felice (uso dei flashback, quasi tutte le “scene madri” azzeccate, la meravigliosa messa in scena della dipartita di uno dei personaggi), Man of Steel cade clamorosamente nel finale, inutilmente confusionario e scritto malissimo, dilatato oltre ogni limite e decisamente privo del pathos che aveva caratterizzato la pellicola. Fino alla mezz’ora finale Snyder aveva firmato il suo Superman Begins, un film tanto spettacolare quanto introspettivo, con un eroe pieno di dubbi, perfetto simbolo dell’incertezza che ammanta il mondo al giorno d’oggi e ben lontano dagli stereotipi “a stelle e strisce” che erano alla base del personaggio oltre settant’anni fa, ma una chiusura così banale e caciarona, stride con il tono al tempo stesso sobrio ed emozionante che aveva contraddistinto Man of Steel fin dai tempi del teaser. Bicchiere mezzo: pieno o vuoto, valutatelo voi.



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