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Pacific Rim: Del Toro va fuori sincrono

Finalmente ce l’ha fatta. Dopo averne prodotto qualche centinaio (“Guillermo Del Toro presenta” sta diventando un’espressione più comune di “piove , governo ladro”), Del Toro è riuscito finalmente a tornare “ufficialmente” dietro una cinepresa e apparire nei credits di un film come regista. Sembra incredibile, ma il nostro paffuto artista era fermo dal 2008, anno del notevole (ma misconosciuto) Hellboy II: The Golden Army. Da allora tantissime produzioni messe in piedi con successo, ma anche decine e decine di progetti nati e abortiti, tra i quali spicca Lo Hobbit, cui Del Toro dedicò oltre due anni di vita, salvo poi mollare il colpo e ripassare l’intero progetto nelle mani di Peter Jackson e l’infinito adattamento del romanzo Alle montagne della follia che a oggi non ha mai visto la luce.

L’attesa però sarebbe dovuta servire a qualcosa, come ad esempio mettere in piedi il film definitivo in ambito “robottoni & co.”, quello che avrebbe ridefinito i canoni del genere e fatto impazzire milioni di appassionati, ponendosi come pietra miliare per gli anni a venire.
Un simile progetto non poteva fallire, giusto?
Giusto?

Sbagliato.
Intendiamoci, Pacific Rim è un film spettacolare, ipercinetico, che, sul piano narrativo, attinge a piene mani dall’immaginario collettivo stratificatosi nel corso degli anni tra gli appassionati di manga, anime, serie tv e fantascienza robotica e, sotto il profilo tecnico, dalle migliori tecnologie esistenti nel campo della settima arte: persino l’altrimenti inutile 3D qui assume un senso logico (o quanto meno comprensibile).

Purtroppo però le sole scene di battaglia, visivamente impressionanti, non possono reggere un intero film e il valore aggiunto si vede (pardon, si dovrebbe vedere) nella sceneggiatura, nei dialoghi e nella definizione e (auspicabile) tridimensionalità dei personaggi. Ed è proprio qui che casca il robot.

Prendete un clichè, un qualsiasi clichè visto, rivisto e stravisto negli ultimi anni: il protagonista che subisce un trauma che lo allontana dalla sua “missione”; il compagno inizialmente stronzo ma che poi gli diventa amico; il cane; la ragazza inizialmente incapace perchè vittima di uno shock infantile ma che guarisce in un battibaleno non appena ce n’è bisogno; il leader carismatico che fa l’inevitabile discorso motivazionale (alla Independence Day, ma scritto peggio); la gag col cane; il personaggio strambo e sopra le righe che pronuncia il battutone simpatico; la coppia di scienziati pazzi e inascoltati; lo zoom sul cane che abbaia. Ci sono TUTTI. Intervallati da dialoghi scritti di corsa, su un kleenex, in pausa pranzo.

Voglio dire: copiare è lecito (Evangelion…) ma, caro Guillermo, almeno sforzati di più per rendere credibile (o non soporifero) il contorno. Tomino non t’ha insegnato nulla? Sicuramente Pacific Rim è un film pensato per incassare molto (e magari permettere a Del Toro di fare i “suoi” film), ma sinceramente potremmo sostituire il suo nome con quello di Bay o Emmerich (i nomi non sono scelti a caso) per avere lo stesso identico risultato. Stesso. Identico. E non è proprio quello che era lecito aspettarsi.

Pacific Rim è quindi un’opera visivamente strepitosa ma globalmente deludente, poco ispirata e drammaticamente poco originale, almeno considerate le personalità coinvolte nel progetto. Detto questo, per tutti quelli che, bambini, rimasero a bocca aperta in quel lontano Venerdì 5 Maggio 1978, allorquando Maria Giovanna Elmi annunciò l’arrivo sulla Rai di Atlas Ufo Robot, potrebbe comunque essere il film dell’anno. Perchè, alla fine, si sa, i robottoni vincono sempre…



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