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Jobs: poco affamato, per niente folle

Ammettiamo di non aver mai sentito parlare di Steve Jobs.
Voglio dire, sarebbe anche legittimo: la casalinga di Voghera, il bracciante lucano e il pastore abruzzese vivono tranquillamente senza conoscere le imprese e i prodotti commercializzati da Apple. Per queste persone, Jobs potrebbe essere un interessante bio pic, un bignami epifanico, anche se un po’ troppo frettoloso, delle gesta (a loro modo) epiche di uno dei più grandi comunicatori ed imprenditori del secolo scorso ed in definitiva un’ora e e mezza ben spesa.
Ma per tutti gli altri? Insomma.

Jobs racconta, molto/troppo velocemente, la carriera del brillante imprenditore dal giorno dell’incontro con l’altrettanto geniale Wozniak e della successiva creazione di Apple, fino alla presentazione dell’iPod, evento che viene (giustamente) considerato come la pietra miliare nella “ripartenza” di una società allora sull’orlo del lastrico e del suo fondatore, che ne era stato estromesso anni prima.

Raccontare Steve Jobs, la sua complessità umana e caratteriale e le sue idee, molte delle quali vincenti a capaci di cambiare le abitudini di milioni di persone, non era certo cosa semplice. La meravigliosa autobiografia firmata da Walter Isaacson impiega oltre 600 fitte pagine per scalfire appena la punta dell’iceberg. Così, di fronte ad un personaggio così controverso, discusso e discutibile, decisamente “larger than life” lo script di Matt Whiteley appare subito soffrire di rachitismo, limitandosi a prendere “pezzi” della vita di Jobs e metterli in scena asetticamente, seguendo una rigida consecutio temporum.

La regia di Joshua Michael Stern, piatta come la superficie di un iPad, completa un quadro poco entusiasmante: l’unica sequenza fuori dalle righe, che vorrebbe esaltare il Jobs mistico e spirituale, si trasforma in un clamoroso boomerang, pregno di ironia involontaria. Per forma e contenuto quindi, Jobs sembra davvero una produzione televisiva, nel senso peggiore del termine, o, al meglio, un instant movie, girato senza preoccuparsi troppo di conferire il dovuto e necessario spessore al protagonista.

Carente di originalità sul piano registico e narrativo, Jobs tocca invece vette insperate quanto a mera fisiognomica: non solo Kutcher, qui insospettabilmente bravo, (ironica la vita eh? Uno degli attori di solito più inetti di Hollywood è identico ad uno dei più illuminati imprenditori della storia dell’umanità) è la “copia conforme” di Jobs ma anche tutti (tutti!) gli altri personaggi sembrano cloni delle rispettive controparti reali: persino Modine si trasforma nel gemello del vero John Sculley, il celebre ex-boss della Pepsi, che, assunto da Jobs, ne divenne poi il principale antagonista. Prevedibilmente, i rapporti tra i due, così come quelli tra Jobs e Wozniack (quest’ultimo ha saggiamente disconosciuto il film) non vengono quasi mai approfonditi e i poveri dialoghi fanno rimpiangere le palpitanti descrizioni fornite da Isaacson nella biografia cartacea.

Insomma, per avere una “visione” originale su Jobs, il pubblico dovrà presumibilmente aspettare Aaron Sorkin, che sta scrivendo un film che consterà (a quanto è dato sapere) di sole tre sequenze girate in “tempo reale” e collocate cronologicamente ai tempi del primo Mac, di Next e del lancio dell’iPod. L’attesa, crediamo, sarà ampiamente ripagata, ma se siete nati ieri o avete vissuto gli ultimi trent’anni in una capsula criogenica, anche questo insipido antipasto, potrebbe risultare commestibile.



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