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Prisoners: le preghiere non abitano più qui

Quando le figlie di due coppie di amici scompaiono misteriosamente nel caliginoso pomeriggio di un giorno del ringraziamento qualsiasi, il detective ombroso, razionale e ligio alle regole Loki ferma Alex, un problematico venticinquenne, al primo posto nella lista dei sospettati perché proprietario del camper che le due avevano incrociato poco prima della loro sparizione. Ma Alex viene presto ritenuto innocente, e rilasciato. Dover, padre sconvolto e irato della piccola Anna, però, non è dello stesso avviso, e, pronto a ritrovare la bambina ad ogni costo, lo sequestra. La rete di misteri e ambiguità che circonda il caso, intanto, non fa che aggrovigliarsi.

Primario e direi quasi istintivo motivo d’interesse di questo Prisoners è senz’altro la presenza in cabina di regia di quel Denis Villeneuve fautore nel 2010 di un film spiazzante e sconvolgente, Incendies – La donna che canta, lontanissimo da qualsiasi scappatoia da mestierante del genere. Da parte sua, per un thriller dalla partitura anti-hollywoodiana sceglie due divi conclamati e, negli altri lidi, più che patinati, ma che ben assurgono alla parte: Gyllenhaal è un poliziotto meno agitato e ‘cazzaro’ rispetto a End of Watch, mentre Jackman condensa la disperazione assoluta nelle pieghe del volto, negli occhi scavati e nel rossore feroce delle occhiaie. E se i due protagonisti ci riportano alla realtà di atmosfere più risapute, sull’azzeccato cast non c’è nulla da ridire: menzione obbligata al sempre più bravo Paul Dano, a Viola Davis, a Maria Bello, attrice ottima e purtroppo sottoutilizzata, e all’irriconoscibile Melissa Leo, che vorremmo vedere più spesso.

Il kidnapped movie ha dato qualcosa in più, di recente, in quanto a twist e portata sociopolitica (pensiamo a Gone Baby Gone, ma anche al curioso I bambini di Cold Rock): inoltre Prisoners, per quanto pigi il tasto dolente della sconfitta americana e della perdita di punti di riferimento (“Avevi promesso che ci avresti prometto da ogni male”), non ha il carico di epica tragedia umana – e in qualche modo storica – di un Mystic River, a cui il dolore cieco di uno dei due padri pare occhieggiare. Ma fa ottimamente il suo dovere, e si rende lodevole esempio di thriller ‘antropologico’ grazie all’asciuttezza, all’assenza quasi totale di musica, di retorica e di spettacolarizzazione della violenza e della sofferenza: le famiglie schiantate cercano urlando e picchiando di scrollarsi di dosso l’impotenza, eppure lo sguardo di Villeneuve non è mai compiaciuto né pietoso, al contrario si mantiene solito e omogeneo, oltre che denso di trattenuta, grave mestizia.
Fin dal principio sommessa incombe un’incudine di inquietudine, come di fato ineluttabile, di sciagura sotterranea: il cervo (animale bello, elegante, puro) viene catturato e poi mangiato, e si fa presagio oscuro di un giorno in cui non ci sarà niente e nessuno per cui ringraziare.

Non tutto funziona alla perfezione: il dipanamento dell’indagine condotta in parallelo e con metodi contrario da Loki e Dover non sempre inchioda quanto dovrebbe, ad una visione globale la pellicola manca a volte di fluidità e in certi momenti si ha l’impressione di una messa in scena più canonica; inoltre Villeneuve strafà un po’ nella durata, lasciando comunque a margine il personaggio di Viola Davis, la presenza della quale, dopo un unico e intenso faccia a faccia con Alex (diversamente dai padri lei fa appello alla compassione e alla pietas del ragazzo), viene accantonata. Ma quando l’angoscia e il silenzio di larghe stanze oscure prendono possesso dello spazio, non c’è più posto nemmeno per il respiro: Villeneuve ha la capacità di rendere filtro e catalizzatore di minaccia e tensione persino una zoomata su un tronco d’albero.

Soprattutto, occorre fare i conti con un’impennata di battito cardiaco negli ultimi venti minuti finali che, con una magra manciata di parole, di avvenimenti e di personaggi in scena, riesce a mozzare fiato e battiti.
Il giustizialismo si ritorce contro all’uomo dalle buone intenzioni e diviene quasi punizione finale per colui che ha oltrepassato il limite, (ri)mesciando le carte: siamo sottoterra, al buio, lassù (forse) qualcuno ci salverà.



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