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True Detective – seconda stagione: Pensieri e parole

Persone tristi con espressioni tristi che svolgono mansioni tristi in un ambiente triste. Non dev’essere stato facile per Nic Pizzolatto, travolto dalle recensioni relative alla prima stagione di True Detective, esaltata da tutti (anche da noi) forse persin oltre i suoi effettivi meriti, mettersi a scrivere la seconda (che come noto, è sempre la più difficile). Riproporre una formula vincente o cambiare completamente direzione per seguire strade nuove e inesplorate?

True Detective 2 si ferma in mezzo ai due estremi, conferendo ancora maggiore tridimensionalità ai protagonisti, ma perdendo quel sense of wonder, quel taglio surrealista e mistico che aveva conferito alla prima stagione un fascino indiscutibile. E, soprattutto, dimenticandosi un po’ troppo spesso che sì, gli struggimenti di personaggi “soli contro il sistema” affascinano e generano empatia, ma che il cuore della storia, l’intreccio investigativo, non dovrebbe mai perdersi di vista, specie se è (assurdamente?) complesso.

Abbandonata la Louisiana, e la coppia del secolo Matthew McConaughey + Woody Harrelson, la serie si sposta in una California da incubo in cui tre poliziotti dal passato oscuro e dal presente squallido (Colin Farrell,  Rachel McAdams,  Taylor Kitsch) devono risolvere un omicidio di un politico locale in cui è invischiato l’ex boss della malavita Vince Vaughn. Sulla qualità degli attori, i dialoghi (ottimi, con alcune battute killer, specie in bocca al personaggio di Vaughn) e i valori produttivi della serie, c’è poco da eccepire. Qualcosa però non ha funzionato bene o, meglio “non così bene” come l’anno scorso.

I difetti principali di questa stagione, che come la precedente si dipana su 8 episodi, l’ultimo dei quali è andato in onda poche ore fa, sono l’eccessiva verbosità (non bilanciata da un’adeguata suspense e azione, che ha reso larghe porzioni di alcuni puntate abbastanza insostenibili) e l’oggettiva inconsistenza di quella che avrebbe dovuto essere la pietra angolare della trama, ossia l’omicidio che funge da kick-off per la storia, che viene sostanzialmente ignorato fino a pochi episodi dalla fine della stagione (con alcuni sbilanciamenti non da poco: il 70% degli avvenimenti viene presentato nella penultima puntata). Alcune evidenti e un po’ marchiane forzature, come il catastrofico background di tutti i personaggi, anime perse di un girone infernale sulla Terra e alcuni personaggi “buttati lì”, come il santone interpretato dallo sprecatissimo David Morse, paiono invece mali minori.

Persiste inoltre l’impressione che anche le sequenze migliori, quelle che vengono citate sui social, dotate di effetto WOW, di cui si discute animatamente (ad esempio quella della lunga sparatoria sparatoria e della “serata escort”) e indubbiamente rimarchevoli sotto il profilo tecnico, siano state piazzate lì giusto per non sfigurare con quelle, ancora più impattanti e soprendenti, della prima stagione, come se gli autori volessero dirci “non è che vi stiamo solo ammazzando di chiacchiere su catasti, acquisizioni, piani regolatori e clichè, sappiamo anche fare ben altro”. Con l’aggravante, oggettiva stavolta, che Lin non è Fukunaga.

E quindi? True Detective 2, sommando algebricamente le sue singole parti, ottiene uno score invidiabile e surclassa la stragrande maggioranza delle serie tv attuali e passate, restando una visione imprescindibile per chi ama l’intrattenimento di qualità. Mancano la magia e i giochi di prestigio, le riflessioni filosofiche, quei due meravigliosi personaggi e l’ascesa catartica verso un mondo un po’ migliore che avevano caratterizzato indelebilmente la prima stagione, rendendola unica e, a quanto pare, irripetibile.



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