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La fine del giornalismo videoludico?

Qualche tempo fa, sul Guardian, non a caso una prestigiosa testata generalista e non “di settore”, apparve un articolo illuminante sulla sopraggiunta impossibilità da parte di chi si occupa di videogiochi professionalmente di redigere una recensione sensata, a causa delle enormi differenze che intercorrono tra un gioco X al day one e lo stesso gioco, mesi dopo.

L’industry, che negli ultimi anni ha subito una paurosa involuzione in termini di rispetto nei confronti dell’utenza, oggi immette sul mercato titoli monchi, buggati, privi di contenuti e grondanti mancanze che vengono poi (nella migliore delle ipotesi) colmate nei mesi successivi alla release, magari previo pagamento da parte dell’utenza di altro denaro sonante, sotto forma di DLC.

Ci sono moltissimi esempi di titoli completamente stravolti dopo la loro release originale. DriveClub al day one era da insufficienza piena, mentre ora è un gioco ricco e godibilissimo, l’elenco dei titoli buggati e corretti in corso d’opera non si conta, altri promettenti hanno mantenuto le promesse (Splatoon) o le hanno completamente disattese (Evolve). L’ultimo esempio, recentissimo, è rappresentato da Street Fighter V, titolo molto atteso di Capcom.

L’uscita del gioco, carente in molti comparti (sia sotto il profilo tecnico che di contenuti), ha provocato una frattura mai vista tra i feedback delle testate specializzate (con pareri positivi e voti attorno all’8) e utenti (su Steam su oltre 1700 recensioni presenti, il 60% è negativa). Qualche testata, più saggiamente, ha sospeso il voto limitandosi a descrivere le features presenti, ma anche questo atteggiamento, considerato pavido da molti lettori, è stato criticato. Del resto è pur vero che un gioco andrebbe valutato per come è al momento dell’uscita e non in relazione a quello che potrebbe diventare in futuro con aggiunte varie. A questo punto però, varrebbe la pena chiedersi a che serva il giornalismo di settore se questo non prende posizione contro un industry i cui comportamenti stanno diventando giorno dopo giorno sempre più lesivi della clientela.

La verità è il giornalismo che si professa “libero” non è libero manco per il cazzo e scusate il francesismo. Tutte le testate che lavorano a livello “pro” campano grazie alle entrate delle campagne pubblicitarie pagate dai distributori e produttori dei giochi. E’ sempre stato così e proprio per questa ragione l’industry avrà sempre il coltello dalla parte del manico. E’ un’ovvietà talmente…ovvia che non andrebbe nemmeno rimarcata. Ma di questi tempi è sempre meglio spiegare le cose due o più volte. Aggiungo: è una pratica assolutamente lecita dal momento che qualsiasi testata giornalistica campa grazie agli introiti della pubblicità, perchè la base/lettori/utenti non paga per ricevere le informazioni e quand’anche lo facesse, non produrrebbe entrate sufficienti a coprire i costi di gestione di siti e pubblicazioni.

Un altro problema che affligge il giornalismo videoludico professionale è che oggi il peso specifico della sua importanza va scemando in modo irreversibile a causa della crescita esponenziale della visibilità di youtubbers e influencers. E’ un circolo vizioso: il produttore deve vendere un prodotto costato moltissimo e ha poche risorse da spendere. A chi le dà? All’influencer con mega seguito di fan spesso mononeuronici o alla testata professionale che sì, fa ottimi numeri ma che magari non riesce a intercettare al meglio l’audience del gioco? Ecco, appunto.

Il giornalismo di settore (e non solo videoludico) paga oggi errori compiuti in passato: dipende dai publisher, perchè non è stato capace di convincere la propria base a pagare una somma X per poter fruire delle informazioni ricevute e sta perdendo la fiducia dei lettori (piuttosto fessi, va detto, visto che dovrebbero rappresentare la prima linea contro gli abusi dei producers) a causa di un atteggiamento palesemente servile nei confronti dell’industry (o nella migliore delle ipotesi) cerchiobottista.

Solo che, viene da chiedersi, un giornalismo così supino e accondiscendente, che non pungola l’industry, che non difende l’utenza e che, sostanzialmente, si limita ad un approccio critico che è identico a quello di venti e più anni fa, a che serve?



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