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Game of Thrones: Harmony per Nerd

L’articolo contiene spoiler 

All’indomani dalla fine di Lost ci si chiedeva quale serie sarebbe stata la sua erede, quale show avrebbe sequestrato l’attenzione degli spettatori sparsi per tutto il globo terracqueo, suscitato e stimolato discussioni infinite, creato fazioni, prodotto teorie e confutazioni delle stesse, quale serie ci avrebbe tenuti sotto scacco settimana dopo settimana nutrendo l’odio per quegli individui senza né dio né patria che a cinque minuti dalla messa in onda, orario locale, erano già lì, tastiera alla mano, a disseminare spoiler. Ecco, l’erede è arrivato: è Game of Thrones anche se Martin, anni fa, aveva chiarito di non voler fare la fine di Lost, metaforicamente e letteralmente.

La fenomenologia della fruizione di Lost e Got sono equiparabili, ma il solco tra le due serie viene scavato dal modo in cui sono state traghettate verso la conclusione. Certo a Game of Thrones manca un’ultima stagione ma fin qui gli autori hanno saggiamente messo in scena la conferma di molte teorie dei lettori, prima ancora che degli spettatori: Jon è il figlio di Lyanna Stark e Rhaegar Targaryen, Daenerys e Jon uniscono le forze contro il nemico comune e nel mentre si innamorano – dopotutto stiamo parlando di A song of Ice and Fire – e, restando alle premesse di questa stagione, non è stato un azzardo scommettere fin da subito per la zombificazione di uno dei draghi, né puntare i propri soldi su Sansa e Arya segretamente unite contro Ditocorto. Fortunatamente gli autori non hanno sparigliato malamente le carte in tavola solo perché internet “c’aveva preso”. Al contrario di Lost.

In una intervista rilasciata al New Yorker, George Martin aveva a suo tempo involontariamente coniato l’espressione “pulling a Lost” per indicare una storia appassionante sfregiata da un finale sbagliato. Martin ha affermato di non volersi porre limiti di tempo – ce ne siamo accorti, George! – per poter garantire alla sua opera una degna conclusione. Lindelof e Cuse, a forza di rilanciare misteri su misteri, avevano finito con il mettersi in un angolino talmente stretto da non poterne uscire senza suscitare un’aggressiva reazione di un’ampia fetta di pubblico sentitasi tradita nel proprio investimento emotivo e intellettuale. Game of Thrones al contrario sta andando, giustamente, nella direzione opposta: se di un prodotto alla fine conta solo chi muore e chi sposa chi, allora parliamo di un prodotto usa e getta, se parliamo di un’opera conta soprattutto il come e il come è esattamente il problema di Game of Thrones. La trama procede spedita con una disinvoltura che rasenta il menefreghismo. Gli autori hanno i minuti contati e stanno spuntando le voci in tabella, gli avvenimenti devono accadere e non c’è tempo da perdere nel preparare il terreno, curare i dialoghi, evitare cliché: si è passati da una costruzione minuziosa e meditata – anche se a volte pedante e dispersiva – di un universo, a una serie per tifoserie (#TeamDany per quello che mi riguarda).

Sorvoliamo sul fatto che i personaggi off screen viaggiano azionando l’iperspazio mentre i corvi sono a propulsione nucleare, l’intera stagione è stata scritta in modo sciatto e in piena consapevolezza, da parte di Bienoff e Weiss, di avere il pubblico in pugno e quindi perché impegnarsi più di tanto. Distanze e tempi accorciati, dialoghi didascalici, un convenientissimo cattivo (Euron) poco più di un mero plot device, imbarazzanti salvataggi per il rotto della cuffia (Bronn e Jamie) per amore del cliffhanger ed espedienti narrativi spiccioli hanno ridimensionato Game of Thrones a una sorta di prime time soap medievaleggiante. Ma con i draghi.

Three-eyed raven Bran, per esempio, non è un personaggio ma l’equivalente delle lettere di Downton Abbey. Nella serie inglese non appena la situazione raggiungeva un punto in cui sarebbe stato troppo complicato e macchinoso far emergere la verità, o sbloccare una situazione, ecco che il contenuto di una provvidenziale lettera svelava segreti, risolveva all’istante situazioni spinose. Bran, qui, ha funzionato nello stesso modo nel fare luce sui natali di Jon e nel mettere al corrente le sue sorelle sul come tutto ebbe inizio con particolari di cui nessun altro poteva essere al corrente (“Nessuno di voi era lì!” urla infatti Ditocorto in sua difesa). Mi auguro che la teoria che vuole il Night King il Bran del futuro sia giusta: Bran avrebbe un senso narrativo e si spiegherebbe perché il Night King contava sull’arrivo dei draghi, altrimenti come avrebbe potuto pensare di poter aprire una breccia nella Barriera?

Perfino Tyrion non è più il fine stratega della battaglia di Blackwater e viene lasciato lì a lanciare sguardi carichi di sibillino disappunto alla porta che si chiude alle spalle di Jon Snow. Cosa avrà voluto trasmettere? Niente di che, come spiega il regista dell’episodio. Per fortuna Cercei non fa mancare una realistica quota di spietato cinismo strategico anche e soprattutto dopo aver assistito all’esibizione da fiera di paese di Jon su “Come uccidere un estraneo 101”.

Nonostante tutto, Game of Thrones lascia con il desiderio di volerne ancora e il disappunto di dover aspettare un anno e mezzo prima di vederne la conclusione: sarà anche diventato una sorta di harmony per nerd ma abbiamo sofferto troppo nelle passate stagioni – spesso glorificate oltre gli effettivi meriti – e se un drago che vola con le ali bucate è uno dei tanti pegni da pagare per continuare a divertirci, così sia.

Note



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