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La cuoca di Castamar: ragione (di stato) e sentimento

Nella Madrid del 1720 la messa in discussione dell’assolutismo (che arriverà con la Rivoluzione francese) e gli ideali napoleonici sono ancora lontani. Il potere monarchico è indiscusso, la divisione in classi governa le vite della nobiltà e di quello che in Francia avrebbero chiamato Terzo Stato. Qui però siamo in Spagna, anche se governata da un Borbone: Filippo V, nipote del Re Sole e di Maria Teresa d’Asburgo. Un monarca capriccioso, mentalmente poco stabile.

In questo quadro, un barocco lucidato ad arte per piacere al pubblico europeo, si innesta la storia dell’ultimo successo estivo Netflix: La cuoca di Castamar, dodici episodi prodotti da Boomerang TV e Atresmedia Studios. Basata sul romanzo La cocinera de Castamar di Fernando J. Múñez, la serie è stata messa in cantiere con enormi sforzi produttivi legati alla combinazione di un’ambientazione d’epoca e delle restrizioni imposte dall’emergenza sanitaria: un successo fin dal debutto spagnolo lo scorso 21 febbraio. Netflix l’ha resa disponibile al pubblico italiano e non solo dal 9 luglio.

Castamar è il casato di Diego (Roberto Enríquez), duca di dinastia altissima e amico del re, devastato dal lutto per l’adorata moglie morta cadendo da cavallo. A riaccenderne l’interesse per la vita è la cuoca del titolo: Clara Belmonte (Michelle Jenner), figlia di un ex-medico militare caduto in disgrazia, che i traumi dell’esistenza hanno reso agorafobica. Ultima arrivata a Castamar per dare una mano ai fornelli, in poco tempo si trova a capo della cucina: il suo talento di chef ante litteram la porterà, pur senza volerlo, a prendere l’intero palazzo per la gola. La strada per il cuore del padrone di casa passerà anche da lì, ma forse troppo può la differenza di lignaggio.  

Nel sontuoso affresco di una love story sussurrata, che a tratti sembra avvicinarsi allo stile soap ma senza toccarlo, si intrecciano i fili delle vite di un’umanità variegata, dipinta in chiaroscuro. A partire dal mefistofelico villain del racconto, il marchese di Soto (Hugo Silva), che mosso da antiche passioni e rancori nascosti trama per infilare nel letto di Diego la giovane Amelia Castro (María Hervás), pedina – non sempre innocente – di un gioco più grande di lei. La madre di Diego, la duchessa Mercedes (Fiorella Faltoyano), si fida ciecamente del perfido marchese; il figlio adottivo Gabriel (Jean Cruz) decisamente meno. E oltre ai due amici nobili, il tormentato Alfredo (Jaime Zatarain) e il viveur Francisco (Maxi Iglesias), è lo stuolo di domestici a riempire i corridoi di Castamar, splendidamente ricostruita in esterni al Palazzo dell’Infante Don Luis, una ventina di chilometri a est di Madrid: da una governante dal passato torbido (Mónica López) a un maggiordomo dal cuore tenero (Òscar Rabadan) a fino alla cameriera Elisa (Paula Usero), che di Clara diventerà grande amica.

Fastoso, qua e là magniloquente e in qualche punto vagamente dark, La cuoca di Castamar è un rutilante tourbillon di ragione (di stato) e sentimenti: relazioni pericolose in salsa iberica in cui c’è spazio anche per l’etica e gli affetti.

Cucinare diventa metafora dell’intrecciarsi di impulsi e slanci fra gli scossoni della vita in questa Cinderella-story che mescola tinte e generi. La storia d’amore è semplice, ma a rendere gustosa la ricetta seriale è anche il corollario dei co-protagonisti, torturati dall’odio o consumati dalla passione, vittime di rimpianti ma quasi sempre aggrappati al desiderio di un domani migliore: dalle utopie di una nuova vita in America alla brama di gloria fino ai sogni matrimoniali – quello di Amelia Castro, costoso e interessato, e quello di Elisa con il valletto Roberto (Michel Tejerina), semplice e a suo modo romantico –. Il tutto insaporito da una fotografia para-caravaggesca che, soprattutto nelle scene in cucina, dosa le luci filtrate dalle finestre e quelle delle candele per scolpire i visi e i corpi dentro e fuori dai coni d’ombra, rendendone visibili tanto le ambiguità quanto le sofferenze.

Può stonare per questo un finale che cade improvviso, cucito sugli ultimi minuti di una storia che lasciava aperte possibilità di epilogo (quasi) infinite.

Eppure lungo i suoi dodici episodi La cuoca di Castamar riesce a ipnotizzare con un mix di piccoli eccessi e perle di anacronismo, ricamate sulla sceneggiatura di un feuilleton che ben gioca con le attese dello spettatore. E la cui confezione non si prende mai il disturbo di nascondere la cura dei dettagli, ben sintetizzata nella breve ed efficacissima sigla (diverse versioni ruotano fra le puntate) che attraversa i corridoi di Castamar, in cui il titolo diventa parte del décor e la macchina da presa può addirittura scavalcarlo.

 

 

 



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