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Non proprio cose da bambini

Due avventurieri vagabondano per le lande di un regno fantastico alla ricerca di nuove avventure. Sul loro percorso incrociano un mendicante alla ricerca di cibo. Non senza pensarci due volte i Nostri decidono di privarsi dei loro ultimi approvvigionamenti per poterli donare al pover’uomo. Tutto nella norma, se non fosse che questo si rivela essere un mago dalle strabordanti tendenze psicotiche.

Per prima cosa rovescia allegramente come un calzino – neanche fosse un bel regalo – un inerme uccello, con tanto di fasce muscolari e sistema circolatorio in bella vista. Poi, non contento, pensa bene di trasformare uno dei nostri due protagonisti in un deforme piede gigante.

Un nuovo ripugnante aspetto che però pare non dispiacere per nulla al suo compare di mille scorribande, tanto da portarlo a opporre sottilmente resistenza ai tentativi della sfortunata vittima di tornare un ragazzo normale. Quelli che non gli fa mancare sono un sacco di complimenti per il suo buon profumo.

Sembrerebbe la sinossi perfetta per una nuova serie prodotta da Comedy Central, ennesimo tassello di follia iconoclasta da incastonare tra South Park, Drawn Together e Ugly Americans. E invece si sta parlando dell’ultimo successo di Cartoon Network. Esatto, lo stesso canale televisivo che già dieci anni fa si divertiva a sovvertire i tradizionali show per bambini lanciando esperimenti come The Powerpuff Girls o The Grim Adventures of Billy & Mandy.

Senza mai arrivare però ai livelli di un Adventure Time (vedi la sinossi nelle prime righe di questo articolo) o di un Regular Show. Fino a poco tempo fa le tecniche per far avvicinare gli adulti a prodotti animati per l’infanzia erano due. O si puntava a un’eccellenza artistica tale da soddisfare anche il più raffinato dei palati cinefili, come succede con le fiabe di Miyazaki, o si giocava di furbizia e si applicava il canone Pixar.

Questo metodo si basa sul punteggiare i lungometraggi con una serie di trovate umoristiche comprensibili unicamente da un pubblico adulto. Si tratta per lo più di citazioni o di innocenti riferimenti alle piccole abitudini quotidiane ancora invisibili agli occhi dei più piccoli. Diciamo che il picco lo si è toccato ne Gli Incredibili, quando una ringalluzzita Elasticgirl trascina di forza il marito – tornato in forma dopo dieci anni di lavoro d’ufficio – in casa e ci chiude la porta in faccia, lasciandoci intendere chissà che cosa. Una gag da sit-com da fascia preserale, il cui aspetto più trasgressivo – si parla pur sempre di una MILF che ha il potere di rendersi completamente snodabile – è forse del tutto involontario. Con Adventure Time invece si gioca in un altro campionato.

Le bizzarre avventure di Jake & Finn – un cane parlante di ventotto anni e un ragazzino di dodici – prendono corpo in un coloratissimo mondo post-apocalittico, dove ogni fantasia pare possibile. I riferimenti a giochi di ruolo e immaginario fantasy si sprecano, così come i costanti riallacciamenti al mondo del retrogaming.

Come se tutto questo non fosse già abbastanza stimolante, il creatore Pendleton Ward inietta in ogni singola puntata una dose esagerata di umorismo surreale, bizzarro e molto spesso disturbante. Oltre che completamente avulso dal mondo infantile. Nell’episodio Death in Bloom i due protagonisti devono recarsi nella Terra dei Morti per chiedere alla Morte stessa di riportare in vita un fiore che gli era stato affidato. Nella più scontata tradizione il Mesto Mietitore accetta, proponendo una sfida musicale.

 

A suon di doppia cassa e vocalizzi death metal. E non si pensi a un caso isolato: la presenza della morte è una costante in tutta la serie, vedi i velati riferimenti a una remota guerra nucleare che ha cancellato il mondo come lo conosciamo. Tra un castello fatato fatto di zucchero e una foresta stregata fanno occasionalmente capolino, fin dai primissimi istanti della sigla, rovine di palazzi, rifiuti e macerie di una civiltà ormai cancellata. Uno scenario ancora più tragico, proprio perché solo suggerito e privo di accenni a una possibile alternativa, di quello tratteggiato in Wall-E. Eppure per il geniale Pendleton Ward il suo è un mondo creato a misura di bambino, costruito secondo un semplice principio: “Mi piace fare televisione per l’infanzia. Il punto è realizzare qualcosa che io stesso avrei gradito da piccolo. Questo è quello che mi interessa: fare qualcosa che faccia andare fuori di testa i bambini per la prima volta” (tratto da un’intervista al portale io9.com). Ricordatevi dopotutto che si parla di un soggetto per cui Pepsiman per PS1 è il miglior videogioco di tutti i tempi (vedi il suo intervento sul magazine Kill Screen).

Di altra pasta, un minimalismo ancora più disorientante del sovraccarico sensoriale di AT, è la serie canadese Regular Show. Due amici di 23 anni, un procione e una ghiandaia, passano le loro giornate sul divano stordendosi di videogiochi e architettando sempre nuove scuse per evitare di andare al lavoro.

Sullo sfondo un cast sopra le righe e un sacco di riferimenti ad argomenti non troppo per bambini. Nella puntata Party Pete (nono episodio della seconda stagione) spunta dalla soffitta una cassa di cola risalente alle Olimpiadi del 1984. Il tempo ha permesso alla bevanda zuccherina di sviluppare alcune “caratteristiche” che la rendono perfetta per animare feste noiose.

Tutto un crescendo di follia e non-senso, compresa la comparsa di un misterioso party-guru anni ’80 dipendente dalla bibita gasata. Direi che non ci vuole un genio per capire di cosa si sta parlando. L’unico esempio più esplicito di riferimento a droghe che mi ricordi lo si può trovare nella serie The Amazing World of Gumball, altra gemma di Cartoon Network, dove in un puntata a base di dipendenze dal cibo si riesce a citare esplicitamente sia Trainspotting che un noto video dei Prodigy.

J. G. Quintel, il giovane creatore della serie RS, giustifica in maniera del tutto candida questa costante confusione tra classificazioni: “Penso sia giusto infilarci della roba (in RS) per i genitori, così che anche loro abbiano qualcosa di cui ridere mentre lo guardano con i loro figli. Se ci limitassimo a fare show super-protetti, con nulla da obbiettare, penso sarebbero cartoni animati molto noiosi. O perlomeno cartoni in cui non investirei il mio tempo per realizzarli”.

Direi che non fa una piega. Il risultato è un Beavis & Butthead classificato PG, una serie con animali antropomorfi come protagonisti dove le puntate più riuscite sono quelle basate sulla vita reale e sulle esperienze che tutti maturiamo con i nostri primi lavori. La recitazione di Rigby e Mordecai è minuziosamente studiata per non sconfinare nel parodistico, affinando ulteriormente il senso di naturalezza grazie a dialoghi mai artificiosi o ammiccanti.

In questo caso siamo agli antipodi di Adventure Time, dove il lessico si arricchisce costantemente di assurde trovate e giochi di parole. Per arrivare alla conclusione di questo lungo sproloquio ho bisogno di una nota personale.

L’unica concessione televisiva che io e mia moglie ci sentiamo di fare a nostro figlio è la serie svedese del 1969 Pippi Calzelunghe. In questo prodotto televisivo, a cui nessun genitore opporrebbe resistenza da almeno tre generazioni, vediamo una bambina che vive sola, nutrendosi esclusivamente di dolci e architettando giochi sempre più rischiosi.

A voler essere analitici risulta molto più pericoloso uno show così – dove le trasgressioni sono comprensibili anche dallo spettatore più giovane – rispetto a quelli trattati in questo articolo. Eppure nessuno gli ha mai dato peso, senza che la cosa portasse a chissà quali conseguenze catastrofiche.

Vuoi vedere che forse, sotto sotto, non sono i passatempi consumati da bambino a creare brutti adulti? E che il nostro sguardo sul mondo dell’intrattenimento, oggi così attento ad andare sempre e comunque oltre la superficie, sia viziato da anni di allarmismi gratuiti e da sterili sovra letture?

Questo speciale è apparso su Players 15, che potete scaricare dal nostro Archivio.



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