Quando ho iniziato ad appassionarmi di film horror, verso la metà degli anni Ottanta, i non-morti facevano davvero paura e non per la loro crudeltà granguignolesca o per l’aspetto ripugnante, ma perché riuscivano ad allegorizzare in maniera mordace gli orrori di quell’epoca.
I vampiri incarnavano il vicino di casa pericoloso (L’ammazzavampiri, 1985), le cattive compagnie (Ragazzi Perduti
Analogamente, gli zombie avevano adeguato la poetica romeriana di fine anni Settanta alle ossessioni tipiche del decennio consacrato all’edonismo più spietato e kitsch. Nell’arco di un lustro, il consumismo di massa satirizzato da Zombie (1979) aveva contaminato la società in maniera violenta e capillare, così, i cadaveri ambulanti si erano fatti più veloci, agili, insidiosi e avevano invaso anche le città di periferia, come ne Il Ritorno Dei Morti Viventi
Questa caratterizzazione simbolica dei non-morti veniva abbinata a dosi sempre maggiori d’ironia (Il Ritorno Dei Morti Viventi
Così, attraverso metafore colorite, i film sui non morti di quegli anni sembravano dirci: “eccovi gli orrori della nostra società, ragazzi, se imparate a riconoscerli, potrete sopravvivere”. Si trattava di un messaggio tanto semplice quanto universale, capace di risultare ficcante anche nei territori nostrani.
In tal senso, l’orrore che avevo imparato a riconoscere meglio da bambino era quello degli zombie, anche perché risultava impossibile non entrare in contatto con loro, si trovavano ovunque, come da tradizione, del resto. Nel caso specifico, non si nutrivano di cervelli ma di panini del Burghy, non avevano corpi putrefatti ma jeans Uniform, scarpe Timberland, cinturoni El Charro e piumini Moncler. La televisione li chiamava paninari, galli, cucador, squinzie (secondo una tassonomia che ha riempito una delle pagine più deliranti dello slang italiano), mentre i sopravvissuti al contagio li identificavano come zombie, appunto.
Anche dopo l’infanzia, questo approccio giocosamente horror ha continuato ad accompagnarmi, evolvendosi, adeguandosi ai contesti più disparati, aiutandomi ad affrontare con ironia alcune aberrazioni del pensiero collettivo. Del resto, anche i morti viventi mutavano di pari passo con la società.
Negli anni Novanta, gli zombie s’incarnavano nelle vittime consenzienti delle multinazionali, come i cittadini di Raccoon City criticati amaramente da Jill Valentine nell’introduzione di Resident Evil 3
Insomma, ogniqualvolta un fenomeno sociale raggiungeva una massa critica tale da uniformare gli usi e i costumi popolari, gli zombie lo inglobavano sistematicamente nel loro DNA mutante e ne restituivano una rappresentazione tanto ironica quanto spietata. Era come una regola non scritta dell’etologia umana, volta a smuovere il nostro senso critico, donandoci, allo stesso tempo, un po’ di leggerezza.
Negli ultimi anni, però, ho avuto come l’impressione che gli zombie si facessero vivi (per modo di dire) più spesso del solito. Talvolta c’era un motivo consistente dietro le loro apparizioni, in altri casi ne tolleravo la presenza ingiustificata per non demolire questo mio mostro sacro. Poi, qualche settimana fa, ho avuto un momento epifanico.
Mi trovavo in fumetteria, intento ad acquistare l’ultimo volume di The Walking Dead
La potenza trash di quella visione mi ha riportato alla mente le copertine anni Ottanta di Cioè o, peggio, quelle del giornalino Paninaro. Del resto, la coppia era presentata in quello stesso modo, mercificata come il ‘gallo’ e la ‘squinzia’ del Terzo Millennio, con la piccola, ma drammatica, differenza che questi personaggi sono stati concepiti per contrastare il contagio dei morti viventi, non per fomentarlo. Alla fine, ho dovuto ammetterlo: gli zombie moderni sono diventati la parodia di loro stessi.
Pensandoci bene, non è difficile capire come siamo giunti a questo cortocircuito. La diffusione dei social network è senza dubbio uno dei fenomeni culturali che ha maggiormente impattato sul tessuto pop contemporaneo. Il desiderio virale di partecipare a un evento collettivo continuo, di dimensioni planetarie, ha portato miliardi d’individualità a convergere verso un unico bacino virtuale e multimediale, creando una schiuma talmente poliedrica da rivelarsi amorfa, se osservata nel suo insieme.
Risulta impossibile, infatti, definire i lineamenti generali di una massa in costante crescita e dove ogni cellula è, allo stesso tempo, “uno, nessuno, centomila”. Così, lo zombie, reagendo d’istinto al fenomeno, ha cercato di parodiare questa molteplicità caotica e informe, finendo per annullarsi in essa, perdendo la propria identità e, di conseguenza, buona parte della sua valenza allegorica.
Fortemente depotenziato nella sua funzione critica, il morto vivente è stato ritenuto sufficientemente innocuo da poter essere sfruttato a trecentosessanta gradi dall’industria dell’entertainment, che lo ha addomesticato per renderlo appetibile alle più disparate fasce di utenti, trasformandolo in un’icona commerciale. Alla presenza maggiormente invasiva dei morti viventi nei media è corrisposta una minore incidenza dell’elemento ‘zombesco’ sul testo vero e proprio. Attualmente, lo zombie sembra avere spesso un ruolo inerte, passivo e viene utilizzato, talvolta, come un mero strumento di scena, al semplice scopo di conferire un’apparenza audace a un prodotto che, di fondo, è intimamente slegato dalla poetica dei morti viventi.
Tra gli esempi più significativi in tal senso, c’è la mesh-up novel Orgoglio e Pregiudizio e Zombie
In sintesi, potremmo dire che, stavolta, siamo stati noi uomini a infettare lo zombie, ‘umanizzandolo’. Ovviamente, c’è chi ancora crede nella potenza comunicativa dello zombie duro e puro, riuscendo ad attualizzarlo in maniera intelligente, creativa, nonché assai personale, ma questa è un’altra storia. Sta di fatto che, pure nella versione confezionata per essere venduta sugli scaffali dei grandi magazzini, lo zombie continua ad attrarre audience, espandendo passivamente i propri confini. È vittima e carnefice, è morto e non-morto allo stesso tempo, è lo “zombie di Schroedinger”, quello che abbiamo creato.
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