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Guida ragionata al giocare sul serio

Se ti diverti solo reagendo alle regole del gioco e non al suo mondo, forse stai giocando sbagliato.

Tra le varie tangenti scaturite dalla discussione attorno al GamerGate, una di quelle che sta più a cuore degli appassionati (anche nel nostro sito) è riassumibile nell’idea che i videogiochi debbano restare giochi. La di sviluppo indie ha creato molte opere che mettono il puro gameplay in secondo piano rispetto alla narrativa, ad un’idea, al design artistico. E la forte attrazione di molta critica verso questi prodotti innervosisce coloro che credono che il cuore dei videogiochi sia rappresentato dall’idea classica idea del medium, quella portata avanti dai Mario, Sonic, e oggi tenuta alta da grandi sviluppatori come Platinum Games o Ninja Theory.

Titoli celebri e recenti come Gone Home e Proteus, secondo alcuni, non dovrebbero essere considerati videogiochi, quanto piuttosto storie interattive. Nell’assenza di ostacoli precisi, quando la storia prende il sopravvento sulle meccaniche ludiche, l’idea stessa di gioco, secondo questo ragionamento, è tradita: giocare significa prima di tutto reagire a delle regole. Il giocatore ha di fronte una serie di obiettivi e ostacoli, e una serie di strumenti per superarli. Con la sua abilità, e con la sua intelligenza, deve trovare un modo per risolvere la sfida che si trova di fronte per completare il gioco (o raggiungere il punteggio il più alto possibile). In assenza di anche parte di questi elementi, è meglio trovare nuove definizioni per restare certi della “purezza” dell’idea di videogioco.

Questa discussione, oggi, assume contorni ideologici, come se esistessero due visioni incompatibili e opposte riguardo a quello che il videogioco sia; e, da parte dei “tradizionalisti”, c’è una sensazione diffusa che chi chiede giochi più maturi, non necessariamente basati sul divertimento meccanico, si senta superiore agli altri, che in qualche modo consideri l’idea di divertimento come qualcosa di accessorio all’esperienza ludica. Quest’idea, però, contrasta con il modo in cui molti, tra cui chi scrive, interagisce da sempre con i videogiochi. Per chi ha sempre visto l’atto del giocare come qualcosa che va oltre la reazione alle sfide proposte dagli sviluppatori.

Ricordo le mie partite a Grand Theft Auto: Vice City. Gran parte della mia esperienza con quel gioco è stata definita dalle missioni scelte da Rockstar, obiettivi chiari, da risolvere con una serie di strumenti presenti nella finta Miami: c’è un ufficio con dei documenti che vanno rubati, e per arrivarci è necessario compiere una serie di salti nei tetti di alcuni dei grattacieli della città. Nei panni del gangster Tommy Vercetti arrivo nel luogo dove inizia la missione, salgo su una moto, raggiungo tutti i checkpoint che mi guidano verso il traguardo, e dopo una serie di tentativi ed errori arrivo al traguardo della missione. Tutto semplice, tutto meccanico e soddisfacente, pura reazione al design del gioco, con un po’ di spazio lasciato all’improvvisazione. Ma le mie memorie vanno molto oltre. Ricordo la mia casa, illuminata dalla luce del tramonto. Ricordo il momento in cui, alla guida di una macchina sportiva, guidavo a fianco del lungomare ascoltando Adam Ant o Michael Jackson. Ricordo la sensazione di vivere a Vice City, i colori pastello, la differenza tra il centro città e le zone rurali. Quando penso alle città dove ho vissuto, Vice City, Liberty City e Los Santos vengono in mente nonostante non ci abbia mai messo piede.

Sin da quando ho iniziato a giocare alla fine degli anni ‘80, gran parte del divertimento, gran parte di quello che considero “gioco”, è far sì che la mia fantasia, le mie sensazioni arricchiscano e si facciano arricchire dal mondo offerto dagli sviluppatori e dagli artisti del prodotto con cui sto passando tempo. Nonostante Vice City non sia un gioco di ruolo, il mio Tommy Vercetti aveva una vita interiore che mettevo in scena con il mio approccio al mondo di gioco. Per quanto possibile, evitavo di uccidere innocenti; spesso mi fermavo a correre per la spiaggia solo perché mi piaceva farlo. Tutte cose che Rockstar North non mi ha mai chiesto di fare, tutte cose per le quali non viene data nessuna ricompensa dal documento del gioco. Ma non di meno tutte azioni che hanno a che vedere con l’atto del giocare in modo fondamentale, che hanno reso l’esperienza di gioco più emozionante, profonda, e anche divertente.

I videogiochi vengono paragonati a mille medium diversi, ma non vengono mai associati abbastanza all’improvvisazione. Così come due attori possono creare una scena dal nulla, con a loro disposizione solo la loro capacità di reagire a quello che l’altro dice, gli sviluppatori di un gioco non solo creano un mondo, ma devono anche anticipare tutto quello che il giocatore può fare dentro allo stesso. Gli sviluppatori più abili hanno la capacità di creare mondi che possono essere arricchiti dalla fantasia del giocatore, dalla narrativa che viene costruita dal dialogo tra il mondo di gioco e l’immaginazione di chi ci entra dentro. L’esperienza videoludica è un dialogo tra chi fa il gioco e chi lo gioca. È il motivo per cui i la serie Sim funziona; per cui Minecraft è diventato un fenomeno enorme ed imitato da molti.

Gone Home e Proteus sono titoli che permettono di mettere in primo piano questa idea di gioco. Camminando nella casa di Gone Home, il giocatore può assaporare la vita della protagonista di cui si immedesima, decidere di prendere il tempo che serve, creare narrative parallele, decidere di creare una protagonista più o meno inquisitiva, impaurita, scocciata da sua sorella o intrigata dal vedere la sua casa trasformata in un puzzle. Attraversando il mondo di Proteus, incerti sul perché ci si trovi sulle isole generate dal gioco, si possono creare infinite ipotesi narrative, dare significato ai vari simboli creati dal gioco, e usare la musica per entrare in una trance creativa che ha tanto a che vedere con le nostre idee e le nostre esperienze che con quello che ci viene offerto dal gioco. In questo modo l’art design e la scrittura diventano interattivi, perché aiutano l’immedesimazione, rendono il gioco più ricco, a patto di trovare soddisfazione e ricompense anche da azioni che non vengono esplicitamente premiate dal gioco.

Per tornare ad oggi, al pastone creato dal GameGate, non è un caso che chi apprezza questo tipo di esperienza sia anche particolarmente attento ai contenuti dei mondi che visitano nei giochi. L’idea che giocare sia un’atto che va oltre l’idea di “completare le sfide” va a braccetto con un desiderio di mondi più complessi, meno stereotipati, con personaggi più sfaccettati, diversi da quelli che tipicamente vediamo nei titoli più celebri che troviamo sugli scaffali. Se una ragazza vuole sentirsi protagonista di un gioco, ma questo non offre alcuno spazio a protagonisti femminili, questo può rendere più difficile l’immedesimazione (non sempre, ma succede). Se il giocatore vuole passare ore in un mondo virtuale e questo dimostra di capire la complessità delle relazioni razziali e di genere sessuale nel nostro mondo, se gli sviluppatori creano un mondo coerente, vivo e rispettoso dell’intelligenza di chi gioca le possibilità di essere sorpresi, di immedesimarsi e di avere un’esperienza di gioco più divertente aumentano esponenzialmente. Quando tutti questi elementi funzionano, camminare lentamente in un corridoio di una casa vuota può essere elettrizzante quanto sfiorare venti auto di seguito in Burnout.

Per questo una moltitudine di persone supporta titoli che vanno oltre l’idea tipica di videogioco: non perché vogliano che i giochi vecchio stile muoiano; non perché vogliano rompere il palloncino a chi si diverte con giochi più leggeri e old school. Molti tra loro che chiedono più complessità si sanno divertire anche con Bayonetta (il miglior gioco della scorsa generazione), Mario Bros., Virtua Figher, Dead or Alive. Ma considerano l’atto del giocare come qualcosa che va oltre l’idea di “finire un gioco”, e si divertono di più quando un titolo dà loro spazio per affrontare il suo mondo in questo modo.

Chi apprezza questa idea di videogioco chiede opere più complesse, più “mature”, e per molti questo minaccia l’anima classica dei videogiochi, quella più spensierata, leggera, e volte caciarona e giovanile; questi esprimono le loro paure al grido di “lasciateci giocare”, un urlo rivolto ad un nemico immaginario in una lotta che esiste solo nella mente di chi ci si trova in mezzo: recensioni come quelle di Bayonetta 2su Polygon non sono un segnale di una tendenza diffusa; sono esempi di giornalismo mediocre, incapace di interpretare correttamente il tono del testo che analizzano. Essere offesi da Bayonetta è più che altro sintomo di una profonda mancanza di senso dell’umorismo, e il gioco Platinum ha preso 10/10 su Gamespot, 5/5 su GiantBomb, e 9/10 su Eurogamer, segnale che gran parte dell’industria offre opinioni diverse, e sa distinguere tra politica, sociale e intrattenimento.

Praticamente tutti coloro che parlano di videogiochi vogliono giocare e vogliono divertirsi, anche coloro che hanno a cuore l’evoluzione del medium, senza paura di “romperlo”. Discussioni di questo tipo sono state fatte in altri medium decenni fa, sopratutto negli anni della rivoluzione culturale, tra i ’60 e i ’70, anni in cui il femminismo e le lotte razziali sono entrate nella cultura popolare. Movimenti che hanno dato vita a tante opere impegnate ma non per questo hanno impedito l’esistenza di American Pie, Piranha 3D, Jackass, The Expendablese decine di film, libri e serie TV leggere ed “ignoranti”. Per questo i timori dei giocatori più conservatori sono completamente fuori luogo, le strane paranoie di una enorme maggioranza, il gigante che ha paura della formica. La scena indie, d’altronde, oltre a Gone Home, Proteus e colleghi, ha anche dato vita a decine di fantastici giochi old school, da Velocity 2X a Super Meat Boy passando per Ridicolous Fishing, Dead Nation, FTL

Che problema c’è se una minoranza vuole ricavarsi una nicchia per esperienze di tipo diverso, per fare spazio ad un pubblico in continua espansione? Nessuno vuole impedirvi di giocare e di divertirvi, anzi; forse ci sono modi di giocare ancora più divertenti di quelli che conoscete, se oltre a reagire alle sfide di un gioco decidete di reagire al mondo che racconta.



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