Vi è mai capitato, mentre vi trovate a bordo di un mezzo pubblico in una città sconosciuta, di desiderare ardentemente di scendere a una qualsiasi fermata e passeggiare per un po’?
Questa è la sensazione che si ha concludendo la lettura de Le variazioni d’Orsay
Pagine che cedono il passo alla natura trasfigurante del luogo, del museo. Essa coglie un lettore impreparato, distratto, e lo spinge a riscoprire il suo essere un esaminatore: per questo motivo Manuele Fior, autoritrattosi intento a rimirare la Incantatrice di serpenti di Rousseau, non può che essere allontanato. Nella struttura ciclica che caratterizza l’opera, l’attento osservatore è ironicamente proprio colui che reagisce volgarmente al divieto dell’assuefatta ed indifferente custode del quadro. Una reazione dovuta a un processo che l’autore stesso ha colto in un’intervista per Fumettologica, raccontando la visita ai magazzini del museo: «[…] Ti rendi conto che sono semplicemente dei quadri, dei pezzi di legno con una tela dipinta, non dei feticci come ormai son diventati adesso. Riesci a guardarli in maniera disincantata». Si crea un percorso ineluttabile che si snoda partendo da Jean-Auguste-Dominique Ingres, rabbioso e destinato ad assistere alla morte della sgualdrina che ispirerà La sorgente, e conduce ad Edgar Degas. Di lui, così come di Claude Monet, Berthe Morisot e degli altri impressionisti, sono narrate debolezze, follie, aggressività che è impossibile racchiudere nel giudizio frettoloso ed adulatorio del pubblico. Un giudizio che dimentica la fine della vita umana, non destinata a non sopravvivere all’opera d’arte, e che non riconsegna questi uomini alla loro forma originaria: l’essere fauves, bestie.
Forse è accaduto anche a voi: soddisfatto l’impulso di scendere e compiuta una passeggiata avete raggiunto un’altra fermata e avete ricominciato il viaggio, consci che un altro luogo, magari un gran palazzo, vi stesse aspettando. Non sappiamo se vi sia accaduto, ma crediamo si possa dire che sia capitato a Manuele Fior. Per fortuna.
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