Ordinarie storie di lettura all’epoca dei social network. Pur avendo amato lo straordinario Elle di Paul Verhoeven, ero del tutto inconsapevole che fosse l’adattamento di un romanzo francese
Invece Michèle Leblanc non è farina del sacco di Verhoeven, non del tutto. L’ho scoperto un giorno, per caso, mentre ero intenta a scrollare distrattamente Instagram. Mi spiace non ricordare quale influencer, booktuber o conoscente sia stato a postare la foto di un volume di Voland a cui di mio mai sarei arrivata, non essendo un drago sulla letteratura contemporanea francese. Purtroppo tocca anche ringraziare le moleste e odiatissime fascette giallo fosforescente, dato che non l’avrei comunque notato senza quella che reclamava la paternità della storia di “un grande film” per il suddetto, agilissimo romanzo.
“Oh…”
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Di fronte ad ogni adattamento filmico bisogna fare una scelta di metodo: prima il libro o prima il film? In questo caso il destino ha scelto per me, ma mi piace baloccarmi con l’idea che, ci fossi arrivata prima della pellicola, la Michèle di Djian Philippe avrebbe avuto il tono di voce beffardo e sublime della Huppert, tanto è logico e naturale accostarlo alla sua galleria di ritratti femminili forti.Di fronte all’imbecillità e al pressapochismo di affermazioni quali “il libro è sempre meglio del film” l’esclamazione di ambigua sorpresa di “Oh…”
Gli scopi dei due uomini che la raccontano, Djan e Verhoeven, non potrebbero essere più distanti, così come i toni dei due racconti. Lo scrittore francese parte da un evento destabilizzante e violento per spingere un personaggio suo malgrado straordinario a fare l’inventario della sua vita, delle sue frequentazioni e dei suoi desideri, in un romanzo brevissimo, ma capace di punte di puro acume, verità e autoanalisi che altrove si cercano inutilmente per capitoli interi.
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Paul Verhoeven invece mantiene il tono da thriller voluto da Djan ma trasforma la ricerca dell’aggressore da parte della protagonista in qualcosa di estremo e spiazzante, quasi da B movie, affiancandoci quei toni da commedia nera e surreale in cui lo sguardo ironico della Huppert brilla più che mai. Il film ha preso alla sprovvista Cannes e il mondo per come testi con la sua ambiguità la nostra marmorea convinzione che nessuno si meriti uno stupro e che subirne uno ti metta irrimediabilmente nel ruolo della vittima.
La Michèle del film si autodefinisce una stronza, non versa una lacrima ed è infallibile nel scegliere ogni volta l’opzione che ci renderà meno empatici e solidali nei suoi confronti. ll film sa essere volutamente inconsistente o appena abbozzato, perché il supposto realismo non ci distragga dal crescere di una sensazione insopprimibile e insopportabile, che è poi il traguardo che lo rende tanto memorabile.
In fondo quel sentimento che la società instilla e che combattiamo selvaggiamente alberga anche in noi. In fondo per essere davvero una vittima, almeno un paio di caselle nella lista della povera donna aggredita le devi spuntare. In fondo in fondo se non ci dimostri che stai soffrendo, se anzi tiri fuori gli artigli e contrattacchi (e torni a scopare e godere), se sei interpretata da Isabelle Huppert e se sei nata dalla penna di Djan e svezzata dalla cinepresa di Verhoeven, non è poi vero che anche in noi emerge quel retrogusto da “te lo meritavi”?
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