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Game of Thrones è finito, andate in pace.

Game of Thrones – o come è stato ribattezzato qui da noi Il Trono di Spade, che malamente sposta l’attenzione dalla contesa per il potere alla lotta per un posto a sedere – è giunto, non senza qualche polemica, al termine. Mai prima d’ora una serie tv aveva raggiunto il successo e smosso la frenesia degli spettatori a un punto tale da creare una vera e propria liturgia della visione, fatta di leggende da tramandarsi (le teorie della fanbase), iconografie da ammirare (i meme) e rituali da osservare (la fruizione evento), praticati nell’attesa che si consumasse lo spettacolo e che la verità potesse appagare sogni, speranze, previsioni e incredulità dei fedeli.

Certo, negli anni le serie di culto non sono mancate e da Lost a Breaking Bad gli spettatori di tutto il mondo hanno avuto diverse occasioni per celebrare la sacralità di certi spettacoli, di venerare le mitologie della contemporaneità che sono, appunto, narrazioni di cui (a differenza di ieri) riconosciamo l’identità finzionale, o più semplicemente il ruolo mitopoietico. Eppure oggi, seguire una determinata serie può far diventare gli spettatori simili agli adepti di una setta, pronti a elevare l’importanza della fiction riservandole un’attenzione eccessiva, al limite del fanatismo. Ed è proprio sull’esacerbazione dell’interesse e sulla divulgazione della “parola” che fanno leva molte delle strategie di marketing dei network televisivi che sfruttano – più o meno efficacemente – canali e copertura mediatici, spesso però dimenticando che a un alto livello di fidelizzazione corrispondono anche alti costi produttivi, che non sono banalmente solo i soldi impiegati, ma anche e soprattutto il tempo, la competenza e la passione investiti.

Per creare una serie di culto è necessario rendersi disponibili a un’attenzione di ritorno che deve considerare la preparazione e la memoria del più abile degli spettatori, restando a servizio della sua (monetizzabile) dedizione. Se non si è disposti a fare questo, il rischio è quello di trovarsi di fronte una petizione firmata da migliaia di fan che – come mi è capitato di leggere un po’ ovunque – non sono una massa di decerebrati, o un crogiolo di gente che non ha nulla da fare, ma solo consumatori insoddisfatti che manifestano la propria delusione e che legittimamente esprimono un feedback, come solitamente si fa per ogni prodotto non conforme alle proprie aspettative.

Il problema – se così si può chiamare – è che questo mercato non ha a che fare con beni concreti o servizi, ma con mitologie che richiedono fede/fedeltà, una sorta di mercato ideologico – attivo nell’era in cui le metanarrazioni sono morte e sepolte, e quindi gravato di una responsabilità maggiore – in cui l’insoddisfazione non può essere mitigata da sostituzioni o rimborsi, perché in ballo ci sono questioni di identificazione e interpretazione personali che non possono essere imbastite e scardinate senza ledere colui che ha investito tempo e fiducia per razionalizzarle e interiorizzarle. Più “grande” è la serie e più epica è la sua narrazione, più ingente sarà la frustrazione dello spettatore se lo spettacolo non risulterà all’altezza. Tutto questo, naturalmente, dando per appurato il fallimento dell’impianto narrativo di Game of Thrones

Qualcosa è andato storto? E se sì, che cosa?
Che qualcosa non abbia funzionato in Game of Thrones ormai è chiaro anche al meno esperto di scrittura televisiva e la ragione è da rintracciare il quel nodo che lega la questione di cui sopra e le soluzioni adottate per chiudere la lunga e articolata epopea. A tal proposito è necessario prendere a prestito le parole della sociologa Zeynep Tufekci che sul sito Scientific American tenta di dare una spiegazione alla sommaria insoddisfazione del pubblico, specialmente rispetto all’ultima stagione della serie. Pur non negando i problemi di scrittura relativi all’ottava stagione – su tutti la contrazione del tempo narrativo e l’incoerenza di eventi ed esistenti – Tufekci suggerisce una più sottile e importante rimodulazione che ha interessato il punto di vista sulla storia e la gerarchia dei ruoli.

La studiosa sostiene che, nel momento in cui il lavoro di adattamento – dai testi di George R. R. Martin – è diventato per gli sceneggiatori un lavoro di scrittura ex novo, si sarebbe verificato un cortocircuito narrativo nel passaggio da una rappresentazione sociale a una psicologica – al posto di una coralità calata in un contesto, ci siamo ritrovati tanti individui, ognuno con il proprio scenario esistenziale. Di conseguenza, lo stile di scrittura avrebbe assunto caratteri di selettività e introspezione, riducendo sia l’importanza e la misura degli spazi fisici e sociali (sempre meno inclusivi), sia le dinamiche di interesse e interazione tra i personaggi (non più pedine, ma stereotipi). Insomma, si è verificato lo stesso difetto di traduzione rilevato per il titolo: dal “gioco dei troni” si è passati al “trono di spade”, in cui se prima il protagonista era il Gioco (l’ambientazione, la strategia, la politica), ora è diventato il Trono (di chi sa, di chi è scaltro, di chi ha più potere).

L’incapacità di cui sono stati accusati i “poveri” Weiss e Benioff non sarebbe, perciò, di natura strettamente professionale, bensì di inclinazione culturale, laddove non sarebbero stati capaci di gestire una narrazione di stampo sociologico – caratterizzante Le Cronache del Ghiaccio e del Fuoco – hanno ripiegato sul più comune e diffuso (e anti-epico) racconto psicologico. Il contesto, le istituzioni e le ideologie sono così venuti meno, rendendo poco credibili e coerenti le azioni e le reazioni dei personaggi, ormai disancorati e dispersi nel mare magnum degli eventi.

Perciò, se consideriamo la condivisibile e acuta osservazione della Tufekci, con tutta la mole di riflessioni ausiliarie che possono essere fatte sul mancato ruolo delle istituzioni e delle ideologie (diegetiche) – definitivamente affossate nella sequenza dell’elezione di Bran Stark – e la connettiamo con quanto sostenuto in precedenza a proposito dell’importanza (per lo spettatore contemporaneo) della conformità del mito e delle sue regole interne, non faremo fatica a capire le ragioni del tracollo di Game of Thrones e della delusione degli spettatori. Perché a qualcosa bisogna pur credere, fosse anche un mondo virtuale in cui vivere, lottare e morire per un ideale ha ancora un peso.



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