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Spider-Man: Across the Spider-Verse è un capolavoro

Miles Morales e Gwen Stacy, nei loro costumi da supereroi, osservano New York a testa a in giù.

Se come dice Caparezza il secondo album è sempre il più difficile nella carriera di un artista, il seguito di Spider-Man: Into the Spider-Verse deve essere un’impresa eccezionale come quella che cantava Dalla. Prendere quello che è stato se non il migliore, sicuramente il più influente film d’animazione degli ultimi anni (vero The Mitchels?), ampliarlo per portata, ambizioni, commistioni grafiche, amore per il personaggio, e uscirne ben più che indenni, anzi come i migliori custodi della versione cinematografica (e non solo, ma ne parliamo dopo) di Spider-Man è un risultato a cui forse nemmeno due enormi talenti come Miller e Lord ambivano a raggiungere con Spider-Man: Across the Spider-Verse

Se i trailer mostrati prima dell’uscita lasciavano già intendere almeno in parte le ambizioni di Spider-Man: Across the Spider-Verse, ovvero ampliare la portata del primo capitolo introducendo nuove versioni di Spider-Man e nuovi stili grafici per rappresentarli, quello che saggiamente è stato lasciato allo stupore della visione in sala è l’ambizione narrativa e meta-narrativa di questo secondo capitolo.  Riprendendo quanto accennato poco fa, Across the Spider-verse è a mia memoria la più interessante analisi in forma narrativa degli elementi costituenti di Spider-Man, uno studio in animazione di ciò che ha reso la creazione di lee & Ditko uno dei personaggi più importanti e influenti della narrativa moderna, una decostruzione degli snodi di oltre sessant’anni di storie per di più immersa nel brodo multiversale che in mano ad altri ha dato risultato eufemisticamente deludenti. 

Concepito da Dan Slott, controverso e longevo sceneggiatore della testata a fumetti di Spider-Man, lo Spider-Verse ha esordito come trama multiversale in cui sono confluiti un serie di elementi della mitologia di Spider-Man affastellati nelle sue avventure negli anni precedenti da differenti scrittore. Lo Spider-Man dei fumetti coinvolto nello Spider-Verse è un eroe che ha scoperto di essere un prescelto, esponente totemico di una forza ragnesca che trascende le dimensioni e stende i suoi effetti su una tela del destino (facendola molto breve e semplice). Miles Morales invece è ancora un ragazzino in cerca del suo posto nel mondo e nella grande famiglia delle Spider-persone, con tutti i problemi che la definizione di una propria identità nel pieno dell’adolescenza porta con sé. 

Nelle mani dell’enorme team creativo che ha realizzato Spider-Man: Across the Spider-Verse, la società segreta degli Spider-Man che attraversa le dimensioni è occasione per riflettere all’intrno del contesto narrativo sugli eventi che definiscono il personaggio di Spider-Man, dall’incontro col ragno radioattivo alle morti tragiche che costellano entrambe le sue identità. In controluce però diventa un modo per riflettere sulle scelte individuali, sulla necessità di rompere gli schemi che la nostra identità sociale ci impone, sulla rivendicazione di un’identità attraverso ciò che si fa, non ciò che si è. Across the Spider-Verse è il culmine (ehm, non proprio, anche qui ne parlo a breve) della parola del personaggio di Miles Morales e dei valori sulla base di cui è stato concepito: non mi stupirei se nel prossimo decennio Miles dovesse sostituire Peter Parker nell’immaginario collettivo, anche in considerazione di come quest’ultimo è gestito attualmente su carta, accompagnata da Gwen, di fatto co-protagoinista di questo seguito. 

Sopra però, in superficie, Spider-Man: Across the Spider-Verse è semplicemente il nuovo paradigma per l’animazione occidentale, una commistione di stili e tecniche che non finisce mai di riempire di meraviglia l’occhio dello spettatore. La pellicola diretta da Dos Santos, Power e Thompson procede a un ritmo veritiginoso per oltre due ore, travolgendo le percezioni della sala con un immaginario in costante movimento affollato di Spider-Man. Nel tripudio di Spidey e nelle loro gag il lettore di vecchia data ritroverà riferimenti narrativi che solleticano, ma quelli più in evidenza (come il Miguel O’Hara del 2099 o Spider-Punk) sono tratteggiati da pochi eppur vividi tratti che li rendono perfettamente comprensibili anche al neofita. 

Personalmente ho adorato anche il recupero di un villain minore come Macchia, presentato inizialmente come una macchietta (ehm, scusate), ma attorno a cui nel passare dei minuti viene cucito un ruolo fondamentale nella trama che collega i punti più remoti del multiverso. Qualche parola la merita anche il Peter Parker papà, evoluzione coerente ed emozionante (sfido a non sorridere quando la bimba indossa il cappello/maschera) della relazione con Mary Jane, inspiegabilmente diventata invece un fardello nelle pagine dei fumetti. Tra i numerosi pregi di Spider-Man: Across the Spider-Verse si può dunque annoverare anche la dimostrazione che Peter può funzionare come Spider-Man anche da adulto, spostato e con prole. Per tutti gli adolescenti c’è Miles in cui rispecchiarsi, e francamento fatico a ricordare un personaggio capace di incarnare i valori di un generazione meglio dello Spidey di Brooklyn. 

La sola pecca che si può trovare a un pellicola per cui è lecito usare il termine capolavoro senza timore di esegarezione è un finale tronco, un cliffhanger che rimanda a una terzo capitolo (Beyond the Spider-Verse) in arrivo nel 2024 che un po’ a sorpresa fungerà da seconda parte di una storia ancora aperta. Scoprirlo seduti sulla poltroncina lascia un po’ di amaro in bocca. Almeno finché si realizza che tra soli diciotto mesi ci sarà un altro film animato di Spider-Man sul grande schermo. 



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