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The Hobbit: An Unexpected Journey. Tolkien for Dummies

Nota: la recensione si riferisce al film visionato nella famigerata modalità a 48 fotogrammi al secondo + 3D, in Italia solo pochi cinema offriranno la possibilità di fruirlo così.

Sono passati più di dieci anni da quando Peter Jackson sbalordì una attonita platea di Cannes presentando per la prima volta una sequenza del suo Magnum Opus, Il Signore degli Anelli, dimostrando che nessuna avventura produttiva è impossibile quando si può contare sulla vincente combo composta da talento + soldi + passione. Onusto di riconoscimenti per la trilogia, l’unica che possa confrontarsi con quella di Guerre Stellari per incassi, importanza mediatica e capacità di influenzare il cinema che l’ha seguita, Peter Jackson torna a raccontare le storie della Terra di Mezzo, utilizzando il linguaggio a lui più congeniale, quello che unisce artigianato di gran classe ad una tecnologia altamente innovativa.

Come accadde tempo fa con Avatar per il suo “innovativo” 3D, il rischio inevitabile è che The Hobbit: An Unexpected Journey venga discusso e analizzato più per le sue caratteristiche tecniche che artistiche. In Italia se ne accorgeranno in pochi, visto che le sale predisposte per supportare questa modalità si contano sulle dita di un mano, ma il film è già entrato nella storia del cinema, in quanto primo blockbuster girato (e proposto) a 48 fotogrammi al secondo.

L’effetto inizialmente è un po’ spiazzante. Visualizzate un’immagine ad altissima definizione, leggermente staccata dalla scenografia, e fate finta che ad ogni passaggio da una sequenza all’altra, una mano immaginaria sposti la velocità di riproduzione a 1.5x per un millesimo di secondo, salvo poi farla tornare ad un andamento normale. Ecco, i famigerati 48 fps producono un effetto simile. Un iperrealismo che se da un lato garantisce panoramiche mozzafiato nelle scene in campo lungo ed una notevole leggibilità in quelle particolarmente concitate, rende paradossalmente meno incisivo il sense of wonder quando l’attenzione si concentra sui primi piani e i personaggi (il celebre “effetto telenovelas”).

Ok, ma, in buona sostanza, il film com’è?
Godibile. Con pochi entusiasmi.

Sotto il profilo artistico The Hobbit: An Unexpected Journey appare come un simpatico e leggero divertissment, ma è ben lontano dallo spessore della trilogia de Il Signore degli Anelli. La storia appare tirata troppo per le lunghe ed in questo senso la necessità di trasformare anche questa saga in una trilogia appare più un’esigenza commerciale che una decisione legata a motivi prettamente narrativi.

Alcune sequenze, come quella durante la quale i nani si recano a casa Baggins per coinvolgerlo nell’avventura e quella in cui i protagonisti hanno a che fare con un terzetto di troll sono oggettivamente soporifere. La narrazione è sincopata, il film è spesso e inutilmente prolisso, il ritmo altalenante e mancano del tutto l’epica ed il pathos della prima trilogia e soprattutto personaggi che buchino lo schermo. Quasi tutto il peso della storia ricade sulle solidissime spalle di un immenso Gandalf/Ian McKellan e su quelle meno larghe ma affidabili di Martin Freeman, un Bilbo tutto sommato convincente.

Jackson, subentrato a Guillermo “mille ne pensa zero ne fa” Del Toro (che lavorò al film per due anni), azzecca due sequenze memorabili: quella in cui un Gollum “fotorealistico” gioca agli indovinelli con Bilbo (unico, vero e credibile punto di contatto con la saga del Signore degli Anelli) e quella che vede la fuga della “nuova compagnia” nel concitato prefinale, ma globalmente annacqua troppo la narrazione: c’è almeno un’oretta assolutamente superflua.

The Hobbit: An Unexpected Journey non è una catastrofe come fu a suo tempo The Phantom Menace, giusto per citare il più celebre appartenente alla categoria di “sequel/prequel non richiesti nè necessari”, ma da qui a considerarlo una visione essenziale ce ne passa. Restano gli eccelsi valori produttivi: gli effetti speciali sono sbalorditivi e si integrano alla perfezione con la realtà, Shore compone una OST esaltante e la storia “ha i suoi momenti” ma le emozioni latitano e se mancano quelle…



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