Parlare di videogiochi non è facile, perché spesso non raccontano storie. Quando vogliamo descrivere un film, un libro, una serie TV, ma anche un dipinto o una statua, possiamo descriverli per quello che raccontano ( l’eccezione è nella musica, ma anche in quel caso spesso dietro alle note ci sono parole, personaggi, situazioni). È nelle storie che il genere umano trova significato, scopre l’importanza delle cose. E per decenni nei videogiochi sono state raccontate storie che, al massimo, sono state definite come “buone per un videogioco”, sottintendendo che sarebbero state meno che buone se trasportate in un altro medium.
Negli ultimi decenni, però, le aspettative dei giocatori appassionati di storie sono aumentate. I videogiochi hanno utilizzato con sempre più insistenza il linguaggio del cinema: l’uso delle tre dimensioni e delle videocamere virtuali, la possibilità di utilizzare voci di veri attori per dare vita ai personaggi e la sempre maggiore qualità della grafica hanno cambiato la percezione del pubblico riguardo al medium. Se sembra un film, perché non dovrebbe avere una storia degna di un film? Molti sviluppatori di talento, da Hideo Kojima a David Cage, passando per Hideki Kamiya a Dan e Sam Houser, si sono cimentati in storie molto ambiziose, per quanto avessero quasi sempre grossi difetti. In titoli come Grand Theft Auto IV
Ma il lavoro dei pionieri ha dato i suoi primi frutti negli ultimi anni, in particolare grazie alla sempre maggiore consapevolezza da parte degli sviluppatori del concetto di “dissonanza ludo-narrativa”: questo termine viene usato per descrivere le contraddizioni tra la storia di un gioco e le azioni che il giocatore compie nelle fasi interattive dello stesso. In Uncharted
La consapevolezza di questo problema ha dato vita a narrative più coerenti e forti, dove il rapporto tra giocatore e avatar crea una sinergia completa, ed un’esperienza emotivamente coerente. Joel in The Last Of Us
Parallelamente, un altro aspetto delle narrative videoludiche è nettamente migliorato negli ultimi anni: le storie “a bivi” hanno dimostrato il loro potenziale, in particolare grazie alla prima serie del videogioco di The Walking Dead
A chiudere il cerchio sono giochi che utilizzano le dinamiche esplorative per raccontare storie di forte impatto, come Dear Esther, Journey e Gone Home . In questo caso non ci sono dialoghi, non ci sono neanche protagonisti nel senso stretto della parola. Ci sono mondi da esplorare, che raccontano storie non solo di persone, ma di luoghi stessi. E, in particolare nel caso di Gone Home, esplorano problemi umani, quotidiani, dimostrando come a volte non sia necessario utilizzare situazioni estreme per appassionare il giocatore.
Molte delle storie citate non sono “buone per un videogioco”. Sono ottimi racconti a prescindere da i medium da cui provengono: raccontate senza nessun senso di riverenza rispetto al cinema o alla letteratura, ma esplorando le possibilità espressive di un nuovo linguaggio che sta cominciando a scoprire il suo potenziale narrativo senza mettere da parte il game design, il cuore dell’arte del videogioco.
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