Parlare di videogiochi non è facile, perché spesso non raccontano storie. Quando vogliamo descrivere un film, un libro, una serie TV, ma anche un dipinto o una statua, possiamo descriverli per quello che raccontano ( l’eccezione è nella musica, ma anche in quel caso spesso dietro alle note ci sono parole, personaggi, situazioni). È nelle storie che il genere umano trova significato, scopre l’importanza delle cose. E per decenni nei videogiochi sono state raccontate storie che, al massimo, sono state definite come “buone per un videogioco”, sottintendendo che sarebbero state meno che buone se trasportate in un altro medium.

Negli ultimi decenni, però, le aspettative dei giocatori appassionati di storie sono aumentate. I videogiochi hanno utilizzato con sempre più insistenza il linguaggio del cinema: l’uso delle tre dimensioni e delle videocamere virtuali, la possibilità di utilizzare voci di veri attori per dare vita ai personaggi e la sempre maggiore qualità della grafica hanno cambiato la percezione del pubblico riguardo al medium. Se sembra un film, perché non dovrebbe avere una storia degna di un film? Molti sviluppatori di talento, da Hideo Kojima a David Cage, passando per Hideki Kamiya a Dan e Sam Houser, si sono cimentati in storie molto ambiziose, per quanto avessero quasi sempre grossi difetti. In titoli come Grand Theft Auto IV e Heavy Rain si è vista una forse eccessiva deferenza rispetto al linguaggio cinematografico, e un uso delle cut scene che spesso sembrava tradire quello che accadeva nella sequenze interattive.

TLOU
Ma il lavoro dei pionieri ha dato i suoi primi frutti negli ultimi anni, in particolare grazie alla sempre maggiore consapevolezza da parte degli sviluppatori del concetto di “dissonanza ludo-narrativa”: questo termine viene usato per descrivere le contraddizioni tra la storia di un gioco e le azioni che il giocatore compie nelle fasi interattive dello stesso. In Uncharted, ad esempio, il nostro eroe, Nathan Drake, è un avventuriero simpatico e carismatico. Ma durante le sequenze di gioco Drake uccide centinaia di persone: per quanto possano essere “cattive”, la capacità da assassino dell’avventuriero fa a pugni con il personaggio che domina le scene di intermezzo tra una sparatoria e l’altra. Esattamente come i dilemmi morali di Niko Bellic in GTA IV sembrano fuori luogo dal momento in cui non sembra provare alcun rimorso nell’uccidere migliaia di cittadini innocenti quando controllato dal giocatore.

La consapevolezza di questo problema ha dato vita a narrative più coerenti e forti, dove il rapporto tra giocatore e avatar crea una sinergia completa, ed un’esperienza emotivamente coerente. Joel in The Last Of Us (qui il nostro approfondimento) un uomo violento, non lo nasconde, e capiamo le sue ragioni: le sue azioni sotto il nostro controllo sono tanto agghiaccianti quanto tragicamente comprensibili. Stesso discorso per Booker DeWitt in Bioshock Infinite: (qui la nostra analisi del finale): un soldato di ventura abituato a spargere sangue, una caratteristica al centro del racconto del gioco. Alan Wake e Red Dead Redemption hanno trovato modi altrettanto efficaci di gestire questo equilibrio: e, per dare pane al pane e confermare l’importanza di uno dei grandi pionieri, Metal Gear Solid 4 ha dimostrato la sensibilità di Hideo Kojima, autore che da sempre si pone questo problema, senza mai dimenticarsi di far notare al videogioco il peso delle sue azioni.

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Parallelamente, un altro aspetto delle narrative videoludiche è nettamente migliorato negli ultimi anni: le storie “a bivi” hanno dimostrato il loro potenziale, in particolare grazie alla prima serie del videogioco di The Walking Dead. Il grande successo della serie Telltale ha dato il senso delle possibilità della narrativa seriale nel videogioco, e più in particolare del potenziale drammatico del mettere il giocatore di fronte a scelte difficili, con poco tempo per scegliere, in situazioni disperate.

A chiudere il cerchio sono giochi che utilizzano le dinamiche esplorative per raccontare storie di forte impatto, come Dear EstherJourney e Gone Home . In questo caso non ci sono dialoghi, non ci sono neanche protagonisti nel senso stretto della parola. Ci sono mondi da esplorare, che raccontano storie non solo di persone, ma di luoghi stessi. E, in particolare nel caso di Gone Home, esplorano problemi umani, quotidiani, dimostrando come a volte non sia necessario utilizzare situazioni estreme per appassionare il giocatore.

Molte delle storie citate non sono “buone per un videogioco”. Sono ottimi racconti a prescindere da i medium da cui provengono: raccontate senza nessun senso di riverenza rispetto al cinema o alla letteratura, ma esplorando le possibilità espressive di un nuovo linguaggio che sta cominciando a scoprire il suo potenziale narrativo senza mettere da parte il game design, il cuore dell’arte del videogioco.

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Emilio Bellu

Scrittore, cineasta, giornalista, fotografo, musicista e organizzatore di cose. In pratica è come Prince, solo leggermente più alto e sardo. Al momento è di base a Praga, Repubblica Ceca, tra le altre cose perché gli piace l'Europa.

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3 Comments

  1. Ottimo articolo!

  2. Per chi ha un occhio di riguardo verso la narrativa nei videogiochi, la prossima generazione potrebbe davvero essere quella dove tutto questo potenziale esploderà: Sony quest’anno con Last of Us e Beyond, ma anche Puppeteer, ha palesato il suo interesse in esclusive dove la storia è importante e confido e spero che anche microsoft si adegui (e quantum break sembra essere sulla strada giusta, conoscendo remedy); inoltre anche le terze parti potranno offrire novità sotto questo aspetto, non dovendo più chiedersi, grazie all’attuale generazione, se progetti come Heavy Rain e Walking dead siano remunerativi. Senza escludere poi gli indie, che con il tappeto rosso postogli dinanzi ai piedi dai produttori di console, possono fare quello che vogliono…Confido molto nel prossimo futuro, e sono convinto che prima o poi anche nintendo sarà costretta un minimo ad adeguarsi in quest’ambito, anche per dimostrare di sapersi rinnovare.

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