Uno degli ultimi giochi ad essere passati sul mio glorioso MegaDrive è stato Theme Park. Non avevo mai giocato un sim builder, un genere fino a quel momento sostanzialmente destinato unicamente al settore di PC e affini, ma le microscopiche immagini scorte qua e là sulle riviste esercitavano su di em un fascino magnetico, al punto da investire senza remore il gruzzoletto di mance faticosamente accumulate per portarmi a casa la tanto bramata cartuccia di Theme Park. C’era un motivo però se quel genere di gioco non aveva mai visto la luce su console, riconducibile sostanzialmente all’assenza di un qualunque tipo di supporto di memoria sulle console dell’epoca – oltre ovviamente alla difficoltà di traslare i controlli dal mouse al pad.

In realtà è possibile che la cartuccia di Theme Park includesse una batteria tampone per sopperire ai problemi di memoria della console SEGA, ma poco importa perché io non ricordo di aver mai trovato il modo di salvare le mie creazioni, quindi è come se non ci fosse mai stata per quanto mi riguarda. Eppure, nonostante tutto, l’otto-volante che spuntava dalla cartuccia di Theme Park ha svettato sul mio caro Mega Drive per più di un anno. Semplicemente, ogni volta che ne avevo la possibilità ricominciavo una nuova partita, dirigevo il mio disorganizzato parco giochi verso il fallimento, poi arrivata la sera spegnevo la luce sul mio operato, pronto a iniziare una nuova avventura imprenditoriale nel corso del successivo weekend o periodo vacanziero. Ricordo ancora il giorno in cui ho dovuto staccare la corrente al mio solo luna park di successo mai allestito e solo perché i miei amici fremevano per trascinarmi in piscina. Dannata vita sociale.

Con l’accorciarsi del tempo libero e l’accumularsi degli anni sulla carta d’identità però anche la mia disponibilità nei confronti dei videogiochi si è fatalmente ristretta e un approccio di pura dedizione come quello riservato a Theme Park oggi è purtroppo semplice utopia. Una controindicazione dell’ingresso nell’età adulta che porta con sé diversi danni collaterali per chi è cresciuto nell’epoca degli 8 o 16-bit. Perché lobotomizzarsi davanti alla reiterazione annuale di una qualunque saga concepita per il mercato di massa è l’anticamera del pad appeso al chiodo, ma giocare a spizzichi e bocconi, spesso di sera dopo una giornata di lavoro, con un livello di sopportazione piuttosto basso mal si concilia con quei pochi titoli che ancora si sforzano di considerare il videogiocatore come un essere dotato di capacità intellettive.

Se non vuole semplicemente raccontarmi qualcosa con strumenti diversi da quelli a disposizione da cinema e libri, un videogioco dovrebbe provare a sfidarmi sul piano della coordinazione occhio mano, mascherando con sufficiente abilità le limitazioni imposte alla sua Intelligenza Artificiale, spiragli volutamente concessi affinché io misero umano possa alla fine uscirne vincitore, seppure a fatica.

Queen-of-Smiles

Il dilagare di giochi che semplicemente si finiscono da soli, pronti ad assistere l’utente in ogni istante con decine di indicazioni, suggerimenti e facilitazioni di sorta per evitare che anche solo un pensiero possa sorgere e interrompere l’estasi di disimpegno prodotta dalle immagini a video ha tuttavia generato – come spesso avviene in questi casi – un movimento contrario. Un nuovo filone di videogiochi pronto ad alzare senza rimorsi l’asticella della difficoltà, a gettare il giocatore in un mondo ostile privandolo di ogni indicazioni, a lasciare che sia solo l’abilità della mano a condurlo a traguardo finale e l’acume del suo ragionamento a decifrare gli indizi sparsi nelle ambientazioni per ricostruire una struttura dotata di senso intorno al contesto in cui è stato immerso.

Demon’s Souls del game designer giapponese Miyazaki è considerato il capostipite di questo nuovo movimento, alimentato da altri titoli pubblicati sempre da From Software, la software house per cui lavora Miyazaki (Dark Souls  e Dark Souls II, Bloodborne, l’imminente Dark Souls III) e da pallide imitazioni occidentali (Lord of the Fallen). Quando però sembrava ormai che la visione di Miyazaki avesse fallito nella ricerca di un terreno fertile in cui attecchire, generando semplici ripetizioni della stessa formula, la comparsa di Salt & Sanctuary segna un punto di svolta tanto necessario quanto inatteso.

Salt & Sanctuary è quello che si definisce a pieno titolo un indie, un gioco sviluppato da Ska Studios, nome dietro al quale si raccolgono semplicemente due persone – quattro se si considerano anche i gatti – già autori di alcun titoli decisamente interessanti (The Dishwasher e Charlie Murder). Bollato prematuramente fin dalle prime immagini come un semplice clone un 2D della serie Souls, in realtà Salt & Sanctuary riesce dove tutti si seguiti del primo Demon’s Souls hanno fallito, Bloodborne incluso, ovvero non si limita a copiare un’intuizione, ma compie il passo successivo: codifica un genere.

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L’opera di assorbimento nei confronti dell’immaginario di Miyazaki è innegabile. Abbiamo un’eroe catapultato suo malgrado tra lande malevole, immerso in un ambiente apertamente ostile e a lui ignoto, in cui le poche figure non interessate ad ucciderlo si lasciano scappare fugaci ed enigmatiche frasi (localizzate per altro in un italiano terribile e a tratti esilarante, figlio di un cut&past con Google Translate), mentre quelle intenzionate a terminare la sua miserabile esistenza dispongono di pattern di armi fuori scala e d’attacco rapidi e letali, se non apocalittici nel caso dei grossi boss.

Il nostro eroe dunque si ritrova a procedere con estrema difficoltà nella sua disperata missione – ironicamente, il salvataggio di una principessa – intervallata solamente dalle pause di ristoro nei santuari, luoghi in cui può gratuitamente recuperare salute mentre noi salviamo il gioco. Questi luoghi sacri, in cui il male non è ammesso, consentono all’eroe di utilizzare le risorse raccolte per migliorare le sue abilità: il sale lasciato a terra dai nemici viene usato per salire di livello mentre l’oro può essere speso presso i mercanti, da evocare però offrendo alla divinità le statuette votive raccolte in fase di esplorazione.

Come le anime per la serie Souls, anche in questo caso il sale è un elemento tanto importante, quanto facile da perdere: se ucciso infatti l’eroe lascia a terra tutto il sale raccolto e non speso fino a quel momento. L’unico modo per recuperare il prezioso bottino è vendicare la propria morte impartendo la medesima sorte alla bestialità che ci ha sconfitto in precedenza, impresa in realtà per nulla semplice perché l’eventualità di rimanere nuovamente uccisi a pochi passi dal santuario in cui si è rinati perdendo così per sempre il sale di cui si è stati privati è all’ordine del giorno.

La medesima lungimiranza nella gestione delle risorse va applicata anche alla stamina, necessaria per parare e schivare i colpi, ma anche per l’esecuzione delle magie. Se nel primo caso però la sua riserva si ricarica da sé dopo qualche secondo di riposo – il che semplicemente impedisce di trincerarsi per sempre dietro il proprio scudo o di eseguire schivate all’infinito – l’evocazione di un incantesimo invece riduce irreparabilmente la disponibilità di stamina fino alla prossima sosta in un santuario.

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Oltre all’introduzione di una serie di piccole, ma significative innovazioni – caratteristica rinvenibile in realtà anche in alcuni degli epigoni di Demon’s SoulsSalt & Sanctuary fa anche altro, ed è proprio quest’altro a sancire i suo distacco dai titoli a cui viene paragonato. Il titolo di Ska Studios infatti riprende gli elementi cardine di Demon’s Souls e si incarica della loro ibridazione, portandoli a contatto cin Metroidvania e il picchiaduro a scorrimento, ovvero li estrapola dall’ambiente in cui sono stati fino a qui utilizzati e li immerge in un nuovo contesto. Gli elementi rimangono immutati, il loro rapporto con ciò che li circonda muta, arrivando a definire la loro essenza per contrasto. In sostanza Ska Studios ha codificato ciò che ha fatto di Demon’s Souls una nuova specie videoludica e compiendo questa operazione ha superato la semplice fase di clonazione che l’ha preceduto, codificando di fatto un genere.

(Di fronte alla vittoria di Ska Studios però mi ritrovo mestamente a registrare l contempo la mia inappellabile sconfitta: mi tocca arrendermi di fronte all’evidenza e constatare di non avere più lo smalto necessario ad affrontare una trentina d’ore con la costanza e la pazienza richiesta da Salt & Sanctuary, e posso dirlo con assoluta certezza dopo averne spese più di una decina abbondanti lanciando imprecazioni e maledizioni da giocarmi ogni speranza di godere di un qualche agio in qualunque aldilà mi attenda. O peggio, forse l’inferno che mi aspetta è più immediato ed è già dietro l’angolo, futuro da trascorrere davanti all’ennesima uscita annuale di una qualche serie casual sempre uguale, soddisfatto della facilità con cui se ne possa finire uno dietro l’altro senza apparente sforzo intellettivo richiesto).



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Claudio Magistrelli

Pessimista di stampo leopardiano, si fa pervadere da incauto ottimismo al momento di acquistare libri, film e videogiochi che non avrà il tempo di leggere, vedere e giocare. Quando l'ottimismo si rivela ben riposto ne scrive su Players.

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4 Comments

  1. Come ti direbbe Roger Murtaugh: “you’re too old for this shit!”

  2. ti capisco…per curiosità, rispetto ad “Unepic” (se lo hai provato) è ancora più difficile?

    1. Onestamente Unepic non l’ho provati, non saprei dirti, mi spiace.

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