Realizzato nel 2000 dalla stessa casa che avrebbe poi fatto girare il primo gioco di ruolo online su una misera linea analogica, e la cui produzione stupiva per qualità e quantità, Jet Set Radio è prima di ogni altra cosa il precursore del cosiddetto cel shading. Come ogni titolo realizzato da Sega in quell’epoca, il prodotto non si ferma però alla semplice invenzione di un nuovo metodo di visualizzazione grafica, ma già ne introduce una sua interpretazione peculiare, lasciando ad altri titoli il compito di esplorarne i risvolti più scontati.
Da XIII e la sua imitazione dell’omonimo fumetto, passando per The Legend of Zelda: The Wind Waker per un raffinato stile cartoon, fino ad arrivare a pellicole quali A Scanner Darkly, nessuna delle opere successive, nonostante i risultati a volte notevoli, si è avvicinata alla personalità che questo stile aveva instillato nel pioniere.
Sotto l’effige tematica della non-violenza, e i numerosi sottotesti collegati, il titolo sembra prima di tutto ribadire l’importanza dell’arte a tutti i costi, qui rappresentata dall’ideale conquista della città di Tokyo-to a colpi di graffiti e a ritmo di musica, mentre un esercito da guerra, per non citare una frangia malavitosa della yakuza, ci dà la caccia con ogni sorta di corazzati.
Al di là dell’inconfondibile stile, stupisce la coerenza del progetto complessivo, fuso attorno all’accompagnamento musicale. Oltre a sposare un variegato mix di generi, andando dal j-pop, passando per hip-hop, funk e rock senza dimenticare l’acid jazz, la componente sonora fa anche da collante tra trama, azione e caratterizzazione visiva. Per il primo punto, basta dare un’occhiata allo speaker ufficiale del titolo, Professor K, DJ di una radio pirata, che tra un livello e l’altro ci rappa gli intermezzi.
Quanto alla seconda, è sufficiente lasciare il controller a terra e osservare i personaggi, che non contenti di rimanere immobili inizieranno immediatamente a ballare. Infine, impossibile non notare ogni sorta di cuffie e dispositivi audio sui personaggi, che nonostante siano inseguiti da eserciti di vario genere, non rinunciano alla loro fonte di intrattenimento: emblematico il caso di Combo, un energumeno di colore che si porta dietro uno stereo da camera grande quanto il suo busto.
Questa convergenza stilistica e audiovisiva si traduce coerentemente anche a livello ludico, perché il titolo riesce a sposare efficacemente il rhythm game, esemplificato dalla necessità di realizzare alcuni graffiti con un certo ritmo e rispettando i comandi che compariranno a schermo, con lo sport game a base di trick, spingendoci a grindare su ogni superficie disponibile. Le missioni più tradizionali implicano il riempire l’area di graffiti in numero e posizionamento prestabilito, mentre le forze dell’ordine, inizialmente capitanate da un buffo clone di Zenigata, e poi viva via più armate, tenteranno di acciuffarci; a queste si aggiungono le consuete gare di velocità e abilità, oltre che veri e propri scontri con altre bande, da combattere a colpi di vernice sulla schiena. Come questo elenco lascia intendere, in Jet Set Radio non si uccide nessuno, e il massimo dell’offesa che coinvolga armi o mezzi blindati, è quello di colorare la cabina di un elicottero nemico. Così, gratuitamente.
Similmente a pochi altri arcade raffinati ma profondi come forse solo i platform Nintendo, la curva di apprendimento del titolo non si basa su progressive sofisticazioni di controlli e conseguente aggiunta di nuove movenze, qui invece disponibili fin da subito, quanto invece nella complessizzazione dello spazio di gioco. La progressione dei livelli farà crescere anche la quantità delle superfici su cui grindare, tra muri, ringhiere, cartelloni, cornicioni, cavi elettrici e quant’altro. Gli unici nei sono forse dei controlli che a volte richiedono un’eccessiva precisione, oltre che una telecamera che non fa appieno il suo dovere.
Certo, niente di grave per un titolo di dodici anni fa, soprattutto se il tempo anziché farlo invecchiare, sembra invece avergli donato persino più fascino, con questa uscita HD. Merito forse della palette di colori particolarmente satura, così come la scelta di una lussureggiante ambientazione metropolitana; ma il nostro auspicio è che il merito sia anche della diversificazione del mercato, che essendo ormai abituato a prodotti atipici realizzati dagli sviluppatori indie, stia maturando al punto da far ulteriormente risaltare questa perla di freschezza, e porla finalmente accanto al fratellino Rez, in vetta all’olimpo dello stylish gaming.
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Grazie!
se fosse uscita qualche anno fa il dreamcast…in questa gen e non nella precedente avrebbe potuto dire molto di più.