Anche se ora che si è fatto grande e lotta per affermare la propria identità non lo ammetterebbe mai, il videogioco è nato e cresciuto con la fascinazione del cinema. Una fascinazione pericolosa che agli inizi degli anni ’80 stava per stroncargli la carriera sul nascere a colpi di discutibili tie-in, ma abbastanza forte da non svanire dopo la prima crisi e sopravvivere fino al presente.
Oggi grazie al progresso tecnologico il videogioco può assumere numerose forme, alcune delle quali strettamente legate alla sua natura interattiva e impossibili da replicare su altri media. Eppure il videogioco che vuole essere film è sopravvissuto al cambiamento e ha mutato il suo aspetto, passando dal ruolo di comprimario a fonte di ispirazione per Hollywood. Se gli sviluppatori della gloriosa Atari passavano nottate insonni nel tentativo di partorire idee per trasformare quei pochi pixel a video in avventure degne dei blockbuster dell’epoca, oggi gli studios reclutano attori di spicco per portare sul grande schermo avventure nate su console.
In questo lunga e reciproca rincorsa tra cinema e videgioco, Quantum Break non solo è la tappa più recente, ma anche la più spettacolare e solida a cui mi sia capitato di assistere fino a questo momento. L’esclusiva di punta di Xbox One firmata da Remedy, studio non nuovo alla contaminazione come dimostrato dal magnifico Max Payne e dal controverso Alan Wake, apre un nuovo capitolo nel lungo corteggiamento tra i due media grazie in parte ai volti noti che ha saputo coinvolgere nel progetto, ma soprattutto per merito un livello di coerenza e compattezza – narrativa, visuale, ludica e scenografica – mai toccato in precedenza.
È Shawn Ashmore (X-Men, The Following, X-Men – Giorni di un futuro passato) a prestare le fattezze al protagonista Jack Joyce, coinvolto nell’apocalittica corsa contro la fine del tempo da suo fratello Will (Dominic Monaghan, il Charlie di Lost, che evidentemente non riesce a stare lontano dai misteri temporali) e dal vecchio amico Paul Serene (Aidan Gillen, Ditocorto in Game of Thrones). Affiancati da un cast di supporto che non sfigurerebbe in una serie tv da prima serata su Sky (tra cui segnalo solo Lance Reddick, Abaddon in Lost, qui nei panni di Mr. Hatch, evidente strizzata d’occhio alla serie di J.J. Abrams), il trio di attori contribuisce a spostare l’asticella della spettacolarità videoludica un gradino più in alto regalando ai loro personaggi non solo una presenza scenica fortemente riconoscibile, ma anche tutta l’espressività dei loro volti. Il motore grafico messo a punto da Remedy spreme a fondo la console Microsoft e restituisce la miglior prova di recitazione mai messa in scena da attori poligonali fino ad ora, con primi piani che finalmente sottolineano o addirittura aggiungono significato ai dialoghi. La sensazione è che aguzzando la vista si possa intravedere finalmente la porta d’uscita della Uncanny Valley.
Altrettanto importante per la riuscita d’insieme è la cura che lega e collega ogni dettaglio, ogni inquadratura, ogni dialogo. Benché possa apparire strano parlare di coerenza per un gioco che si divide su tre piani – le fasi giocate, gli intermezzi realizzati col motore del gioco, e i quattro episodi di una ventina di minuti interpretati da attori in carne ossa che separano i cinque atti ed approfondiscono le storyline legate ai cattivi – il dialogo tra le differente componenti è denso e fitto di rimandi. Molta cura è stata riposta nel trattamento dell’immagine, per limitare il distacco tra sequenze digitali e parti filmate, mentre con sorpresa il gioco entra ed esce senza soluzione di continuità tra scene d’intermezzo ed azione, senza alcuna variazione percepibile nell’altissima qualità grafica. Sbalorditiva in questo senso è al realizzazione degli “effetti speciali”, vero e proprio marchio di fabbrica di Remedy, che oltre a fumo, fiamme e particellari assortiti include questa volta anche le deformazioni visive collegate alle anomalie temporali che spaziano dalle semplici deformazioni alla ricomposizione quadrimensionale dello spazio, come in un quadro cubista.
Ancora più importante però è la compattezza narrativa che porta Jack Joyce a muoversi in un numero limitato di location, tutte legate tra loro, sacrificando la varietà in favore della solidità: non si ha mai insomma la sensazione di star giocando sezioni slegate tra loro ed unite forzatamente da un qualche escamotage narrativo. La trama segue un suo percorso, inevitabilmente ciclico trattandosi di viaggi nel tempo. E se inizialmente il canovaccio può sembrare materiale da primetime caciarone su SyFy, muovendosi lungo il tortuoso sentiero narrativo tracciato da Remedy la faccenda si fa via sempre più complessa e articolata. Pur senza arrivare alle emicranie di Primer, il tema del viaggio nel tempo che fa da colonna portante del gioco si attorciglia più volte su sé e funge da stimolo a rigiocare almeno una seconda volta l’avventura per coglierne tutti i riferimenti ed esplorarne i differenti bivi narrativi.
Quasi a sottolineare l’ineluttabilità del nostro destino, impossibile da alterare anche attraverso il viaggio nel tempo perché tutto ciò che dovrà essere in realtà è già stato, durante le fasi giocate ben pochi ostacoli sembrano in grado di intralciare i cammino di Jack Joyce verso il suo destino. Sbarazzarsi delle milizie della Monarch, la società che ha sviluppato la tecnologia dei viaggi nel tempo provocando lo strappo nel continuum spazio-temporale, è spesso una passeggiata grazie ai poteri sviluppati da Jack che gli consentono di eseguire schivate rapidissime, erigere scudi-temporali o bloccare nel tempo i suoi bersagli. Solo le unità munite di dispositivi al chronon, in grado di replicare in parte le abilità di Jack, rappresentano una vera sfida, così per mettere realmente in difficoltà il giocatore Quantum Break deve ricorrere al vecchio trucchetto dell’ambiente ristretto affollato di nemici di alto livello, mezzuccio di cui arriva ad abusare sul finire del gioco. La sostanziale linearità viene interrotta di tanto in tanto dai non numerosi, ma interessanti puzzle ambientali che richiedono l’utilizzo dei poteri di Jack per ricostruire parte dello scenario o rivivere flashback durante i quali carpire informazioni dal passato: se la descrizione vi riporta alla mente Life is Strange, avete ragione, il concetto è molto simile. Eppure, seguendo la deplorevole tendenza attuale, il gioco arriva a guidare anche queste situazioni suggerendo nemmeno troppo velatamente cosa fare per proseguire, rovinando in parte la gioia della scoperta.
A differenza di Life Is Strange e facendo fede alla sua natura di action/sci-fi votato alla spettacolarità, Quantum Break sacrifica una dose di approfondimento che non sarebbe affatto guastata. Il tema della pre-determinazione del destino viene discusso solo superficialità, ma pecca ben più grave è la scarsa attenzione prestata alla maturazione del protagonista Jack, trasformatosi da ragazzotto di ritorno in città a superuomo che si muove tra le pieghe del tempo e crivella innocenti guardie Monarch senza che la cosa paia toccarlo più di tanto: tutto quello che gli sentiamo pronunciare di tanto in tanto è una generica constatazione su come nella sua vita spericolata avesse già avuto a che fare con armi da fuoco, come se questo possa giustificare la carneficina in cui lo assisteremo nella successiva decina d’ore.
Da questo punto di vista il personaggio di Jack paga la sua natura di strumento nelle mani del giocatore. Per tutti gli altri – Will, Serene, ma anche comprimari come Hatch e Beth – l’abbondanza di documenti scritti rinvenibili negli scenari offre interessanti opportunità di divertimento, oltre a qualche simpatica gag e più di una strizzata d’occhio verso Alan Wake. La componente letteraria nei giochi Remedy in effetti è una costante, dalle cut-scene girate come una graphic novel animata per Max Payne alla struttura da romanzo di Alan Wake, e questa volta viene declinata secondo la formula del romanzo epistolare o della fiction documentale simile a quella di Max Brooks nel suo World War Z.
Nel complesso però, benché sia sicuro che non gli verranno risparmiate critiche legittime per l’eccessiva linearità, Quantum Break riesce a superare le già alte aspettative che ne hanno accompagnato la lunga gestazione, giustificata oggi dalla miriade di particolari con cui è caratterizzato l’universo narrativo del gioco. Sulle capacità tecniche di Remedy aleggiavano ben pochi dubbi, ma il risultato finale è decisamente impressionante: per ricchezza di dettagli, qualità complessiva e realismo della composizione non c’è nulla di equiparabile su console in circolazione, e nemmeno Uncharted 4 avrà vita facile nel togliere questo primato all’ultima fatica firmata Remedy. Ben più sorprendente invece è la qualità complessiva dell’avventura, che pur concedendosi qualche leggerezza da blockbuster hollywoodiano affronta un tema tutto sommato rischioso come il viaggio nel tempo con un piglio sci-fi dotato di sufficiente profondità da non sfigurare nei confronti delle serie TV contemporanee, ma soprattutto sfoggia una dose di coerenza e compattezza tra tutti i suoi elementi che segna un nuovo punto di arrivo nel genere dell’action/adventure. Hollywood e la Silicon Valley non sono mai stati così vicini.
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