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Soul: il gusto amarognolo di un finale dolce

Joe Gardner è un professore di musica delle medie. Insegnare ai ragazzini non è facile,  e non è nemmeno la sua ambizione: il suo sogno è quello di suonare jazz in una band. Dopo aver ottenuto quasi per caso un provino al cospetto della grandissima Dorothea Williams, Joe sfodera la prestazione della vita e si assicura un posto sul palco nello spettacolo della sera. La gioia tuttavia è tale da non fargli notare un tombino aperto lungo la strada. Volo. Buio. E ora Joe è un’anima che ascende verso la luce

La voglia di giocarsi la sua opportunità però è troppo forte per Joe. Violando ogni protocollo possibile per il trapasso delle anime, riesce a fingersi un mentore di anime. La sua assistita è 22, un’anima che non vuole nascere, bloccata da millenni nell’Ante Mondo. In seguito a una serie di peripezie, e anche grazie anche al contributo dello strano Spargivento, le due anime finiscono accidentalmente sulla Terra: Joe nel corpo di un gatto e 22 nel corpo di Joe.

Le due anime, arrivate sulla Terra senza autorizzazione e ricercate dalle alte sfere dell’Aldilà, si ritrovano così ad alterare in modo rocambolesco la vita di Joe, il cui corpo ora agisce d’impulso governato da 22, mentre la sua anima non può che assistere impotente e meravigliarsi di una vita molto meno avara di soddisfazioni di quanto ricordasse. 

Soul è forse il punto più alto della produzione Pixar, sotto innumerevoli punti di vista. Tralasciando la qualità tecnica, ormai irraggiungibile per chiunque e graziata in questa occasione da un’illuminazione che ha del sovrannaturale per naturalezza, la pellicola sceneggiata da Pete Docter, 
Mike Jones e Kemp Powers stacca quasi ogni altro film di quest’anno per qualità della scrittura. 

In Pixar hanno sviluppato un’abilità che appare banale, ma non lo è per nulla: costruire film per adulti che piacciano ai bambini, ma che siano al contempo film per bambini che parlano agli adulti. È un percorso che buona parte degli studi di animazione occidentale sta cercando di compiere, non tanto per raggiungere la maturità orientale del settore, quanto per vantaggi commerciali, in cui tuttavia Pixar ad ogni modo spicca. 

Se lo sguardo sulla vita Joe vissuta da 22 è di sicuro divertente per un pubblico di bambini e adolescenti, fungendo magari in qualche caso anche da spunto di riflessioni, per un adulto è invece un cazzotto in pieno stomaco, dato col sorriso trai denti. Soul inevitabilmente costringe chiunque lo guardi a fare i conti con se stesso, con ciò che ha combinato nella propria vita e a mettere tutto in prospettiva. 

Joe si accorge, forse insieme a chi guarda dall’altro lato dello schermo, di aver passato la sua esistenza a inseguire un’ossessione, trascurando le schegge di felicità incontrate lungo il cammino, in attesa di un qualcosa caricato a tal punto di significato che una volta realizzatosi rischia di rivelarsi effimero. Quel che ne esce è una critica per nulla scontata  (soprattutto all’interno di un film prodotto da una delle più grandi multinazionali occidentali) di quel concetto di vita basato sul raggiungimento degli obiettivi, sull’idea di crescita costante verso un futuro sempre migliore, più redditizio, più ambizioso, che finisce per sgretolare il presente. 

Ma, allargando il raggio del ragionamento, viene da chiedersi davvero se la felicità possa esistere, intesa come stato raggiungibile di cui si ha consapevolezza contingente, o se invece sia solo un costrutto posticcio, che tendiamo ad appicciare a momenti del passato a cui riguardiamo con nostalgia. In quei giorni che oggi ricordiamo felici, eravamo davvero felici? È una domanda tosta, ma trovare una risposta fa tutta la differenza del mondo tra l’idea di aver sprecato la vita inseguendo qualcosa e la consapevolezza che la felicità è invece irraggiungibile e può essere solo osservata nello specchietto retrovisore. 

Riconoscendo a Pixar tutti i meriti per aver confezionato la pellicola con la più alta dose di spunti di riflessione dell’anno (rimasta fuori dal listone di Andrea solo perchè uscita dopo la pubblicazione), col passare dei giorni mi sono reso conto però di avere un grosso problema con Soul. E no, non mi riferisco alle polemiche sull’appropriazione culturale, per cui secondo qualcuno 22 sarebbe un’anima bianca che si prende le soddisfazioni di un corpo nero: non le condivido, ci si può ugualmente ragionare sopra in un modo produttivo, ma sono comunque felice di vivere in un’epoca in quei queste tematiche vengano problematicizzate e non trascurate. 

Il mio cruccio, tuttavia, è col finale del film, una polemica nei confronti di Pixar che mi porto dietro dai tempi di Wall-E e i cui fondamenti mi sembra emergano in tutta la loro forza anche nel finale di Soul. Premessa doverosa: da qui in poi entro in pieno territorio SPOILER. 

Che senso ha far ritornare Joe nel suo corpo? Non siamo ai livelli del recupero della memoria di Wall-E (sì, me la sono legata al dito), ma ci ripenso da giorni e davvero non riesco a trovare una motivazione valida. Joe è già tornato indietro, ricoprendo il valore della sua vita, e ha anche vissuto il momento di gloria che tanto attendeva. Quindi, perchè?

Lo scopo più evidente del finale consolatorio, ovvero la strizzata d’occhio ai bambini con il lieto fine considerato immancabile, finisce però a mio parere in contrasti con l’intero messaggio del film: se c’è sempre una seconda possibilità, ha davvero senso dare il giusto valore alla vita passata? Se non c’è mai una vita sprecata, perchè sempre recuperabile, si impara comunque qualcosa? 

Quando si vuole parlare a tutti c’è un dazio da pagare e nel caso di Soul è un messaggio annacquato, consolatorio anche se il film non sembra mai andare del tutto in quella direzione, perché non osa arrivare al porto verso cui sembra diretto, ovvero che che il tempo andato è andato, al massimo lo si può rivalutare alla distanza, ma è alle proprie priorità nel “ora e adesso” che bisognerebbe dedicare tutte le energie. Se si può sempre rimediare, perchè invece dannarsi tanto?

Capisco le motivazioni commerciali, ma è un vero peccato che un coacervo di talenti come quelli raccolti in Pixar non sfrutti l’occasione per far fare all’animazione un salto di qualità (o forse sarebbe meglio di dire di target) anche in occidente, affrancandola dalla sua destinazione infantile, a cui paiono legarla i disegni, per trasformala in un medium e imporle un’universalità tematica, come avviene in oriente. Forse il treno del cambiamento si è perso davvero con Wall-E, ma Pixar avrebbe davvero la fortuna di poter contare su una nuova occasione ogni anno; o forse sono solo io che ci casco ogni volta. 



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