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Libri e fumetti che avreste dovuto leggere a maggio 2023 – Parte 1

Una bancarella di libri e fumetti

Maggio è stato un mese particolarmente denso di uscite letterarie oppure ci siamo fatti prendere la mano noi, vai a sapere. Ad ogni, a letture finite abbiamo optato per un esperimento, anzi due, crepi l’avarizia. Per questo mese l’articolone di segnalazioni è diviso in due parti, per evitare di ritrovarvi in prossimità della pensione (AHAHAHAHAH questa la gen z non la capisce) a fine lettura, mentre per salvaguardare gli infortuni al polso abbiamo diviso l’articolo in pagine: stop scrolling, ti giochi la vita con quella robaccia. Ad ogni modo, visto che non siamo degli assi nella roba tecnica, non c’è stato verso di anticipare i link alle pagine successive prima del quadratone azzurro in cui proviamo a impietosirvi. Abbiamo aggiunto un banner, ma sappiamo che quelli non li legge nessuno, perciò nel caso nessun rancore. 

Bene, iniziamo con la nostra selezione di libri e fumetti pubblicati a maggio 2023 (parte uno!).


Evol

Di Evol probabilmente basterebbe dire che è il nuovo fumetto di Atushi Kaneka, autore di Soil (in ristampa in queste settimane). Curiosamente, la vicenda di Evol ha dei tratti in comune un trio di titoli che troverete tra poco. Anche nel Giappone immaginato da Atushi Kaneka i super eroi sono una realtà, sono al servizio delle istituzioni e i superpoteri si trasmettono per discendenza biologica. Una dinastia regnante instaurata attraverso i superumani e mascherata da democrazia funzionante attraverso una sicurezza di facciata. Come da tradizione, però, non manca il dettaglio sovrannaturale. In un centro di recupero per sopravvissuti al suicidio, tre ragazzini scoprono di provenire dalla stessa scuola e di essere cambiati dopo aver provato a togliersi la vita. All’orizzonte si prospetta uno scontro tra lawfull evil e chaotic evil, in cui non mancheranno improvvise impennate nello splatter. Atushi Kaneka si conferma già dal primo numero un autore sempre interessante, capace di arricchire col suo sguardo fuori dai canoni anche una tematica ormai declinata in ogni modo a occidente, la decostruzione del supereroe, definendo su carta una versione dei superumani ancora più disturbante di quella di The Boys. Col suo tratto che rimanda all’Europa e il suo sguardo verso l’America filtrato attraverso la cultura giapponese, Atushi Kaneka approccia un tema ormai classico del fumetto statunitense trasformandolo in un’imperdibile commedia nera. 

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Quaderno dei compiti per adulti di Blackie

Sono passati solo quattro anni dall’arrivo del Quaderno dei compiti per adulti in Italia eppure l’idea di Blackie è già entrata stabilmente a fare parte delle nostre abitudini estive. Pensandoci non è una cosa da poco, perché il Quaderno deve muoversi su un delicato equilibrio, ovvero rimanere sempre uguale a se stesso al contempo però innovandosi, per non sembrare una mera copia aggiornata del precedente. Il merito del successo va riconosciuto in primo luogo a Daniel López Valle, autore dell’orginale versione spagnola del Cuarderno e a Dario Falcini che si occupa dell’adattamento italiano. I giochi del Quaderno riescono sempre, anche quest’anno, a cogliere lo spirito del tempo, citando eventi di costume che tutti hanno intercettato negli ultimi mesi, ma anche ad approfondire argomenti parecchio di nicchia risultando comprensibili a tutti e stimolando voglia di approfondire. Va detto che ci riescono anche grazie al colorato talento di Cristóbal Fortúnez, illustratore spagnolo che riempi le pagine di strambi e divertenti dettagli che catturano l’occhio e accendono la miccia dell’immaginazione (trovate la nostra intervista al trio di autori qui). Da quest’anno, inoltre, è disponibile anche la versione Kids (così potrete levarvi di torno i marmocchi e farvi il vostro Quaderno in santa pace, lo dico io per non farlo ammettere a voi, tranquilli).  

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La Fame

La crescita di Ottocervo continua inesorabile. Siamo al quinto volume per l’etichetta fumettistica tarantina costola di Antonio Mandese Editore, e la qualità delle storie proposte si mantiene altissima: La Fame, nato dalla collaborazione tra Rolando Frascaro, Maurizio Cotrona e Federico Perrone rappresenta però, almeno per quanto mi riguarda, la vetta qualitativa della proposta editoriale di Ottocervo finora. Basato su un racconto di Frascaro e adattato in sceneggiatura fumettistica da Cotrona, romanziere qui all’esordio nel ruolo, La Fame è un thriller a venature horror che ben trasmette la capacità del fumetto di raccontare per immagini, grazie all’immenso lavoro grafico di Perrone. La sceneggiatura di Cotrona trasforma il racconto di Frascaro in una storia per immagini quasi muta, in cui le parole sono giustamente ben dosate per lasciare spazio all’espressività delle figure di Perrone. Chine e colori, realizzate dallo stesso disegnatore, collaborano tra loro: laddove le prime distribuiscono abbondanti dosi di nero nelle vignette, i secondi alleggeriscono gli spazi con tonalità pastello che contribuiscono per altro anche alla creazione di un’atmosfera rarefatta, di attesa mentre il rosa dominante all’inizio lascia spazio a rossi sempre più accesi. Non servono tante parole perché Perrone è bravissimo a raccontare attraverso la figura umana, con le posture e le espressioni, ma anche attraverso l’uso di inquadrature inusuali che guidano l’occhio durante la lettura e costruiscono un immaginario ben più esteso di quello racchiuso all’interno della pagina. La storia di Becky, bambina dalla fame atavica e insaziabile, insieme a quella di sua madre e dei compromessi necessari per celare al mondo questo desiderio inarrestabile e socialmente inaccettabile, scorre a ritmo sostenuto, incalzata da una gabbia che sa aprirsi, favorendo lo scorrere di elementi tra una vignetta all’altra, e richiudersi quando invece deve prendere slancio per correre, serrata, verso una splash page di più ampio respiro. In breve ci si ritrova colti dalla stessa, indomabile ingordigia della protagonista, trascinati dal puro instinto famelico verso la pagina finale, sazi ebbri e allo stesso tempo sbranati noi stessi dal fumetto che abbiamo consumato. Una delle migliori letture di questo 2023 a fumetti. 

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Do a PowerBomb

E anche questo mese riesco a parlare di wrestling. Dopo The Ringmaster e Omnilith, in questa occasione è Do a PowerBomb di Daniel Warren Johnson a riportarci tra le corde del ring, ma anche negli spogliatoi, oltre le transenne, nelle palestre di periferia e nei palazzetti gremiti, ovunque la disciplina sia disposta a mettere in scena il proprio spettacolo itinerante. L’incontro di DWJ col wrestling è stato tardivo, ma folgorante: lo racconta lui stesso nell’introduzione del volume, ritornando alle notti in bianco con la figlia appena nata in braccio davanti alla luce bianca della tv. Conquistato dal dramma shakespeariano che i lottatori inseguono tra le corde, risolvendo le diatribe con suplex e voli dal paletto, Warren Johnson si è immerso completamente nella storia del wrestling, recuperando in pochissimo tempo decine d’anni di faide, incontri, duelli televisivi e personalità larger than life, per dirla come i telecronisti americani. A quel punto, DWJ ha semplicemente fatto ciò che fa di solito in questi casi: ha riversato su pagine e pagine di disegni la passione che l’ha divorato per mesi e mesi trasformandola in un fumetto. Era successo lo stesso con Murder Falcon, celebrazione a fumetti della passione per il metal del suo autore, ma in questa occasione lo stupore per la quantità di riferimenti è amplificato dalla consapevolezza che sono frutto di una passione nata solamente tre o quattro anni prima, durante i quali Warren Johnson non ha certo smesso né di disegnare né di scrivere né di suonare. Dopo essersi immerso in ogni incarnazione e declinazione del wrestling, dal poruresu giapponese alla lucha messicana senza trascurare la decennale storia della WWE né la neonata AEW, ha rielaborato tutte le nozioni acquisite in un fumetto autoprodotto attraverso Image. Le caratteristiche sono quelle tipiche dei lavori creator owned di Warren Johnson, opere come Murder Falcon concepite in primo luogo per divertire chi le realizza. L’entusiasmo per la disciplina esplode nelle figure plastiche che guizzano sulla tavola, cristallizzate all’apice di mosse spettacolari e dolorose. Tra multiverso e shonen (il manga è un’altra grande passione e fonte di ispirazione per DWJ), Do a PowerBomb porta un misterioso (?) luchador mascherato e una giovanissima wrestler, rimasta orfana della madre sul ring, a fare coppia sul tabellone di un esagerato torneo interdimensionale organizzato da un potente negromante con i palio la possibilità di resuscitare chiunque. Libero dai gioghi editoriali delle major, Warrenn Johnson scatena senza riserve tutto il suo talento, confezionando un volume che gronda passione da ogni pagina e sorprende per la spettacolarità di ogni singola tavola. Lo stile ruvido e graffiante si presta benissimo alla resa della dinamicità dei lottatori tra le corde, mentre nelle sue raffigurazioni plastiche moonsalt e suplex diventano manovre che lanciano gli atleti verso il tetto dei palazzetti o inarcano gli angoli del quadrato per la potenza degli impatti. Quando è ben scritto, il wrestling è una versione ipertrofica del romanzo d’appendice e Warrenn Johnson ha saputo coglierne alla perfezione lo spirito. 

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Il grande libro delle storie non scritte

 

Se quiz e indovinelli surriscaldano troppo calotte craniche già messe a dura prova da temperature infernali, Rizzoli propone quest’estate un activity book alternativo alle pubblicazioni enigmistiche. L’dea è di Mariella Cortes, giornalista di cronaca e costume che ha assemblato questo volume dall’aspetto molto ispirato, ma che in realtà si propone di ispirare storie. Il concept è semplice, ma efficace: nelle diverse sezioni in cui si divide il libro (che spaziano dagli incipit ai finali senza trascurare tutto ciò che c’è in mezzo) vengono proposti degli spunti illustrati e scritti che servono da stimolo per riempire con la propria penna o matita il resto della pagina, convenientemente lasciata vuota. I suggerimenti sono decisamente vari e l’abbondante foliazione del libro ne è una prova. A volte si parte da una foto o da un disegno, altre volte da una situazione inziale da sviluppare; alcuni esercizi invece richiedono di appellarsi alla propria memoria o di dare vita a personaggi appena abbozzati: certo non va preso come un manuale per scrivere un libro, anche perché in Italia ci sono già più scrittori che lettori, quindi non conviene molto, ma può essere un ottimo stimolo per chi non è abituato a scrivere e ha voglia di allenare le proprie capacità espositive. Per esperienza personale, invece, Il grande libro delle storie non scritte può tornare utile anche a chi scrive per professione e ha bisogno di un aiutino per sbloccare quella maledetta pagina bianca che non vuole riempirsi di caratteri. Sempre rimanendo sul personale, la mia sola riserva riguarda la parte grafica che a volte strizza un po’ troppo l’occhio all’estetica di Tumblr o Pinterest, ma considerando come il libro punti anche a un target giovane, evidentemente in questo caso quello fuori posto sono io. Ammetto però che le copertina, con la sua sintesi di tutto ciò che ci si può aspettare di trovare all’interno, è praticamente perfetta. 

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La nave morta

La Nave Morta è il libro più bello che leggerete questa estate senza averne mai sentito parlare prima (di leggere questo articolo). Bisogna iniziare però dal suo autore: B. Traven. Mai sentito? Tranquilli, siete in buona compagnia. Bruno (?) Traven è uno pseudonimo. Le persone che davvero hanno conosciuto l’uomo, la donna, o gli uomini e le donne che vi si sono celati dietro probabilmente si contano sulla dita di una mano: per lo più agenti incaricati dall’autore di trattare i diritti dei suoi romanzi e dei film ispirati. Già, perché da un suo libro del 1927 è stato tratto Il tesoro della Sierra Madre, vincitore di un Oscar. Da allora, le teorie sulla sua identità si sprecano: Ret Marut, scrittore e giornalista anarchico tedesco? Otto Feige, a sua volta forse alter ego di Ret Marut? Traven Torsvan, fotografo e studioso della storia sudamericana, vissuto in Messico a inizio ‘900? O, perchè no?!, Esperanza López Mateos, sorella del presidente del Messico, luogo in cui Traven si faceva spedire i diritti d’autore, nonché traduttrice di otto libri del misterioso scrittore? Qualcuno azzarda persino che dietro Traven ci sia Jack London. Ciò che sappiamo di sicuro è che La Nave Morta è stato pubblicato nel 1926, in Germania, e nel decennio successivo riscritto in inglese. Protagonista del romanzo è Gerald Gale, marinaio statunitense che ritorna più volte negli scritti di Traven. Gale, marinaio, si attarda in un porto belga durante una sosta, felice di farsi fregare l’anticipo della paga da una signorina disposta a fargli compagnia per pagare le cure della madre. Al risveglio però Gale si trova a terra, con la nave al largo e nessun documento in tasca: in pratica un apolide, ospite non desiderato sballottato per mezza Europa fino a trovare un impego su una nave misteriosa, coinvolta in traffici poco chiari, forse destinata solo a divenire un rimborso assicurativo per l’armatore. Difficile affermare con certezza di cosa La Nave Morta sia metafora letteraria. Che sia traslitterazione del capitalismo che in quell’epoca innestava la marcia più alta ai suoi inquinanti motori, un attacco alla natura burocratica della nostra società che assoggetta l’esistenza dell’individuo al possesso di un foglio di carta (le storie sull’identità di Traven parlano quasi tutte di un documento ottenuto beffando le autorità) o semplice e sarcastica avventura marinaresca, La Nave Morta è una lettura che trascina in un gorgo di flutti, amari, eppure mai privi di ironia. Il recupero di WoM Edizioni è da applausi, la cover col teschio e la particolarità dell’occhio bucato che riprende il dettaglio dell’illustrazione accolta nell’aletta è invece da standing ovation. 

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Only Revolutions

Mark Z. Danielewski sa fare una cosa che in pochi sanno fare. Sa far paura con la parola scritta. Sembra facile, ma non ricordo un altro libro che mi abbia turbato, inquietato e spaventato come il suo precedente Casa di foglie, al punto da non riuscire più a leggerlo a di notte. Casa di foglie è il romanzo più famoso di Danielewski, nonché esponente più celebre della letteratura ergodica (quella che abbandona la linearità tanto della scrittura, quanto della stampa), è la storia dell’esplorazione di una stanza che non c’era, una porta apparsa in fondo a un corridoio che si apre su un abisso oscuro, infinitamente più esteso delle mura che contengono l’intera casa. Only Revolutions sposta la lente di Danielewski su una storia d’amore tra due sedicenni che attraversa l’intera America, a bordo di un’auto sempre diversa, un viaggio tra i secoli che non ha timore di raggiungere la fine stessa della Storia. Quel che non cambia invece è la sua scrittura che rifugge ogni regola ed evade da qualunque gabbia l’impaginazione pensi di potergli imporre. Ogni pagina ha due numeri, perchè Only Revolutions si legge in un verso e ne suo opposto, da un lato il racconto di Hailey, dall’altro quello di Sam, fianco a fianco sulla pagina, uno specchio dell’altro: 66thand2nd consiglia di leggere otto pagine di una e otto pagine dell’altra, come in una danza. Ogni pagina è una data, un pezzo di diario, e dunque l’interno delle pagine è utilizzato da Danielewski per incolonnare gli eventi del giorno, istituendo una canale di comunicazione interno in cui le vicende del romanzo si intersecano con quelle storiche, attraverso i 100 anni che vanno dal 1863 al 1963, e ritorno. Un cerchio, proprio come la O, di fatto simbolo grafico della rivoluzione nella sua etimologia latina di ritorno, che Danielewski colora in ogni parola, in ogni pagina, nell’intero libro, persino sulla cover. Non si respira la stessa angoscia di Casa di Foglie (e per fortuna, perchè ci vuole un po’ per togliersela di dosso dopo averlo letto), ma Danielewski riesce ad agganciarmi alla pagina anche con la storia di due ragazzini disposti a rinunciare a tutto, tranne che all’amore. 

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Leviathan Verse

Questa rubrica è sempre un’ottima occasione per me per scoprire nuove realtà editoriali come Leviathan Labs, casa editrice che pubblica fumetti e che a maggio ha fondato il proprio primo universo narrativo condiviso: il Leviathanverse. Le (prime?) tre serie a comporre questo affresco sono The Black Bat, Baron Savitch e Iron Ace. Nella pagina dei credits di ogni albo c’è un rimando al creatore originale dei personaggi, nati come figure pulp della golden age del fumetto: ammetto che per un momento mi sono chiesto se questa fosse un’informazione vera, o una suggestione, poi ho controllato (e sì, esistono tutti e suppongo nel frattempo sia scaduo il copyright, ma lo scrivo in bianco così se preferite vi evitate lo spoiler). Ho iniziato la lettura da The Black Bat, ovviamente suggestionato dall’assonanza con un certo eroe DC Comics, ma quello che mi sono trovato davanti è stato un ottimo punto di ingresso nell’universo Leviathan. Tra la tre, è senza dubbio la serie più urbana e dark. Attraverso le voci dell’atmosfera cittadina però si inizia a percepire la presenza di uno scenario più grande all’esterno, attraversato da una pandemia, dalle tensioni da guerra fredda e dai timori di una nuova invasione aliena. Con Baron Savitch invece ci spostiamo a Mosca, dove la mente di un detective è stata trasportata nel corpo di un robot, rendendolo infallibile. Nel cuore dell’epidemia di funghi killer che si sta rapidamente espandendo al resto del mondo, Savitch indaga su un delitto le cui radici affondano nei misteri di una società modello forse solo all’apparenza. Da quanto si può ricavare da queste prime pagine, il ruolo degli eroi è stato fondamentale nella lotta con l’invasore alieno e la ricompensa è stata il riconoscimento delle autorità nazionali, che hanno elevato i propri eroi a difensori della patria. Nel contesto di questo stimolante scenario, dopo crime e fantascienza Iron Ace ci porta in territori più fantasy, dialogando tanto col mito di Re Artù quanto con la space opera alla Dune. Il livello qualitativo generale è alto, forse con qualche calo nel comparto grafico qua e là un po’ acerbo. Nel complesso però i tre albi si presentano ottimamente, anche dal punto di vista della cura editoriale e dei materiali usati: la sensazione a prima vista è quella di avere in mano un albo qualitativamente equiparabile a quelli dei grandi editori indie americani, ma stampato su carta migliore e con una copertina solida. Più in generale il progetto ha goduto di un’ottima curatela, che si esprime anche attraverso il design che accomuna la parte superiore delle copertine con nostalgici cornerbox e un’attenzione notevole a livello di coordinamento editoriale tra le testate. The Black Bat, Baron Savitch e Iron Ace seguono ciascuna una traiettoria differente, ma sono i piccoli riferimenti indiretti sparsi tra le pagine a far percepire l’appartenenza delle tre vicende a un unico mondo interconnesso e stimolante. Sono molto curioso di leggere i prossimi numeri e capire se e come le diverse trame andranno a intersecarsi. 

Link Leviathan Labs.

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Jazz Liutenant

21Lettere ci ha preso gusto col fumetto. Dopo aver inaugurato la propria etichetta a fumetti con due opere di Jean-Jaques Sempé, più vignettista che fumettista a voler fare i pignoli, a maggio la casa editrice emiliana ha pubblicato in Italia Jazz Liutenent di Durand, Le Bot e Jiwa  che ricostruisce, cercando di rimanere quanto più possibile aderente al vero, la storia di James Reese Europe, uno dei padri del jazz e figura importantissima del movimento per l’uguaglianza degli afroamericani. La storia di Europe si incrocia, nomen omen, con quella del Primo Conflitto Mondiale combattuto nelle trincee europee anche da una divisione di soldati americani neri guidati dallo stesso Europe. L’idea era quella che il sangue nero versato per la libertà avrebbe contribuito a velocizzare un processo di riconoscimento e accettazione da parte della popolazione bianca. La realtà seguirà invece una traiettoria piuttosto diversa, ma la storia di Europe resta ugualmente affascinante e ambiziosa. Per raccontarla Durand ricorre a una sceneggiatura asciutta, ritmata da didascalie che tracciano le coordinate storiche del racconto, mentre a Le Bot e Jiwa spetta il compito della ricostruzione storica. Il tratto del primo, solcato da pesanti chine nere e molto attento al rispetto delle proporzioni, trova naturale completamento nei colori del secondo, dominati da tinte opache che virano al seppia, ma che sanno concedersi esplosioni di vivacità quando necessario. Ancora una volta, quella di 21Lettere è una scelta fuori dal coro, che a prima vista spiazza, che fa poco rumore. Ma quella vista finora è una selezione intelligente, ponderata e molto interessante, che sa distinguersi dalle proposte delle ormai innumerevoli case editrici che producono e propongono fumetto in Italia. 21Lettere sta lavorando per ritagliarsi una propria identità anche nel fumetto, operazione che le è già riuscita alla perfezione nella narrativa di varia (ne parliamo nella seconda parte di questo articolo) e che sta iniziando a prendere forma anche nella letteratura disegnata, almeno dai primi tre volumi pubblicati finora. 

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