“Quello che non c’è non si può rompere” diceva (forse) Henry Ford.
“Meglio andarsene un minuto prima, lasciando le persone con la voglia, che un minuto dopo, avendole annoiate”, diceva invece Cary Grant.
“…” dice Thatgamecompany.

Journey è un gioco che vive di sottrazioni. Non solo richiede meno di cinque ore per essere completato, ma è anche un gioco che rifiuta ostinatamente uno dei dogmi più granitici del game design: il riciclo delle meccaniche. Per ragioni di efficienza facilmente intuibili, quando un team di sviluppo crea un’abilità del protagonista o un sistema di gioco, i game designer si sforzeranno di declinare quella meccanica in ogni scenario possibile. Il motivo per cui, ad esempio, non avete mai visto un gioco investigativo in cui il protagonista si trova a dover sparare solo una o due volte in tutta l’avventura è che se fai la fatica di creare un sistema di puntamento e di combattimento con le armi, vorrai probabilmente sfruttare quel lavoro nella maniera più efficiente possibile. La logica alla base di questo ragionamento è perfettamente sensata. Purtroppo la conseguenza è che la gran parte dei videogiochi odierni fa ripetere al giocatore le stesse azioni fino (o oltre) la soglia del disgusto. Ma in confronto al resto dei videogiochi, Journey è asciutto e rapido.

Il tema di Journey, come si intuisce dal titolo, è il viaggio. Il giocatore impersona una misteriosa figura umanoide avvolta in un mantello. Il viaggio comincia in un deserto da cui si scorge la meta: la cima di una montagna emerge massiccia dall’orizzonte. Durante l’avventura ci saranno diversi cambi di ritmo e scenario, e ci saranno cutscene e indizi per capire il contesto in cui si svolge la vicenda. Eppure Journey non ha una vera e propria trama: gli abbozzi di storia possono essere interpretati in diversi modi, e il racconto del popolo di cui il protagonista fa parte (o forse è il racconto della vita del protagonista?) è tanto vago quanto affascinante.

Journey è minimalismo in forma di videogioco. E, nonostante rischi di essere stucchevole, una rappresentazione dello snobismo, il minimalismo ha per definizione il pregio della sintesi. Dire poco e dirlo bene è un atto rivoluzionario in un mondo come quello della cultura popolare, in cui tutto funziona secondo la regola del “more is more”. Uno dei più tristi difetti della cultura geek è l’incapacità di apprezzare il mistero, di capire perché le pause e i silenzi sono importanti, di non sapere apprezzare la sintesi.

Il minimalismo di Journey non è solo tematico, ma si estende anche alla parte giocata: il giocatore può camminare, scivolare sulla sabbia, saltare ed emettere suoni. Una levetta e due tasti sono gli unici strumenti che Journey fornisce. Con questa limitata tavolozza si risolvono enigmi, si intessono conversazioni e, in genere, si affronta una delle più potenti esperienze di esplorazione della storia dei videogiochi.

Riducendo tutto all’osso, Journey è un platform. Il salto diventa presto una sorta di breve volo o planata, e gran parte degli ostacoli vanno affrontati usando questa abilità. Il senso fisico della vertigine è reso perfettamente, ed è centellinato con cura. In Journey non c’è la solita progressione dei platform, con salti sempre più difficili o esigenti. Piuttosto, i designer scelgono sempre di fare uno scarto subito dopo aver presentato una variazione alle meccaniche di base. Nuove idee vengono introdotte e scartate subito prima che diventino prevedibili. I poteri del proprio avatar vengono rimossi o amplificati per creare un senso quasi tattile del fallimento o dell’apoteosi. Descrivere in dettaglio queste variazioni distruggerebbe il senso di scoperta che è alla base di Journey, ma basti dire che difficilmente si è visto un gioco con un tale disprezzo per ciò che è efficiente.

Due elementi, in particolare, danno profondità a Journey. Il primo è l’aspetto estetico/sonoro. La vividezza della grafica, fatta di figure sottili che si stagliano sullo scenario di una natura brutale, si unisce a un senso della messa in scena che raramente si è visto in un videogioco. I volumi, gli spazi e gli ambienti, così come il movimento e la composizione di una scena sono resi con una competenza che di solito si vede solo nel cinema, nella pittura o nella fotografia. E quando un gioco che dura una manciata di ore offre alcune delle sezioni esteticamente più sconvolgenti degli ultimi anni ci si rende conto che Thatgamecompany ha creato qualcosa di davvero unico.

Il secondo tocco di classe è il multiplayer di Journey: un sistema del tutto invisibile al giocatore che mette in contatto viaggiatori senza bisogno di usare lobby, username a schermo o menu. Ogni tanto, durante il viaggio, si scorge un altro viandante. A quel punto ci si può ignorare o si può proseguire assieme. Le dinamiche che si creano, in una incomunicabilità quasi totale, sono sorprendentemente vaste. Già adesso si trovano in giro su forum e blog racconti di giocatori sorpresi, commossi o estasiati dal comportamento di altri giocatori, dal rapporto speciale che si crea fra due creature che comunicano con meno mezzi di quelli a disposizione di un primate (il canto assegnato a un tasto, di fatto, permette solo di emettere un suono breve o uno lungo).

Non si tratta solo di una geniale trovata di design: il senso che i giocatori danno al multiplayer di questo gioco dice qualcosa sulla natura umana. Il senso dell’esperienza e dell’interazione con l’altro viene costruita nell’immaginazione di ogni giocatore, in silenzio. In un certo senso, è un nuovo modo di giocare.
Ci sarà chi, nella comunità che videogioca, bollerà Journey come un’opera pretenziosa, fumosa e senza sostanza.

Ma, esattamente come ancora oggi, un decennio dopo, continuiamo a riconoscere ICO, Shadow of the Colossus o REZ come i primi precursori di una corrente artistica nel videogioco mainstream moderno, Journey indica la via per il futuro. La montagna è di fronte a noi. È ora di cominciare il viaggio.

Questa recensione è tratta da Players 14, che potete scaricare gratuitamente dal nostro Archivio.



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Ferruccio Cinquemani

In passato ho scritto – e a volte scrivo ancora – per riviste di videogiochi e siti. Ho lavorato brevemente come tester di localizzazione per Rockstar Games. Oggi vivo a Stoccolma e lavoro nel settore del marketing. Sono uno dei conduttori del podcast Ringcast.

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