Voglio bene a Giorgio Moroder. Lui, pioniere della cassa dritta, paziente zero della dance di stampo italiana, baffo badass e leggenda della musica. Non male, come curriculum vitae. Ho esultato per lui quando Random Access Memories dei Daft Punk lo ha prepotentemente riportato sotto le luci della ribalta, con un pezzo spettacolare che lo ha fatto ricordare a tutti, pure a quelli che non lo conoscevano. Mi sono sinceramente emozionato quando, in un DJ set registrato poco dopo l’uscita del disco, questo tenero settantaquattrenne ha parlato al suo nuovo pubblico, con la voce quasi rotta dall’emozione. Come se una macchina del tempo lo avesse riportato ai tempi in cui faceva le magie con un Moog e le gambe lunghe di Donna Summer.
E allora via, al grido di “74 is the new 24”, con un nuovo disco, presentato in pompa magna, ricco di collaborazioni con i grandi nomi del pop del 2015. L’ho aspettato con fiducia, facendo il tifo per Giorgio, anche perché nulla mi scalda il cuore più di un artista che continua a sentire il brivido dell’ispirazione, anche mentre galoppa verso gli ottant’anni (da non confondere con gli anni ottanta). Anzi, mi arrabbio quando qualcuno, dall’alto del suo piedistallo, sentenzia che l’artista X farebbe meglio a smettere di fare dischi. La produzione è un diritto inalienabile dell’artista, ma non divaghiamo. Dicevo che ho tifato, e ho tifato sul serio, ma il risultato è una cocente delusione. Il mio beniamino ha sfornato quaranta minuti di musica da pubblicità della Vodafone: pezzi orecchiabili, ruffiani al punto giusto, privi del graffio e del ruggito dei bei tempi che furono.
Ogni tanto, ironicamente, si sente l’influenza di rimando dei Daft Punk, ma senza il saltello e il “french touch” del robotico duo, mentre in altri momenti si riconosce il gusto per la discomusic, con quel ritmo incalzante di rullante, cassa e charleston. In altri, sfortunatamente più rari, si intravede il genio ritmico e melodico del grande Giorgio, attutito però dalle tecniche di produzione più moderne. Anche perché, trattando l’artista con il rispetto che merita e dicendogli le cose come stanno, il suo sound “odierno” suona già vecchio: è troppo pasticciato per avere la potenza dei suoi classici, ma al tempo stesso non è abbastanza al passo coi tempi per competere con il mercato attuale, commerciale o underground che sia. È un sound plasticoso, innocuo, che invece di far risaltare le tante star come ai tempi di I Feel Loved, le appiattisce.
Paradossalmente, Deja Vu è uno dei lavori meno maturi di Moroder. Vorrei potere offrire una birra al vecchio Giorgio, dirgli che gli ho dedicato un tributo a 8 bit e spiegargli che sì, c’è ancora spazio per lui, nel mondo dell’elettronica. Per lasciare un altro segno, però, deve fare come quella fatidica notte di tanti anni fa, giocando secondo le sue regole, senza inseguire mode e tendenze che, in ultima analisi, non gli appartengono.
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