Spoiler Warning: non leggete se non avete visto Star Wars: The Last Jedi

The Last Jedi è lo Star Wars di cui la nuova trilogia aveva bisogno ma se a fine visione, dopo due ore e 30 minuti di una storia avventurosa, emozionante, corale, dispiegata attraverso atti di eroismo e martirio, a qualcuno è rimasto soprattutto il fastidio per momenti comici forzati e alcune incongruenze, forse andrebbe presa in considerazione l’ipotesi che non si voleva vedere un film di Star Wars.

La comicità a tutti i costi toglie gravitas, sminuisce la portata degli eventi, caricaturizza personaggi e, in ultima analisi, le battute che mirano a storpiare il nome dell’avversario non dovrebbero superare la barriera della terza media. L’alleggerimento umoristico è sempre stato ondivago nella saga, un’ambivalenza perfettamente rappresentata dal modo in cui C3PO e R2D2 funzionano da spalle comiche: il primo ampolloso e forzato, il secondo impertinente e giocoso. Però mentre scrivo tutto questo, annoio me stessa, perché davvero vorrei parlare d’altro, di tutto quello che è stato reso bene e di tutto quello che poteva andare male ed è stato invece portato a casa brillantemente.

“I’m from nowhere, I’m nobody”: in poche battute, e grazie alla presa di coscienza di una verità che è sempre stata lì a disposizione, a volerla accettare, Johnson grazia Rey di una caratterizzazione unica, ampliando così la portata della saga libera finalmente dall’essere un affare di famiglia tra prescelti e immacolate concezioni. Alla rivelazione drammatica e spiazzante sulla paternità di Luke corrisponde qui una verità molto più mondana e prosaica. La forza non si manifesta in modo elitario e dinastico ma è realmente l’energia che tiene insieme le maglie dell’universo attraversando e connettendo tutte le creature, pervadendo chiunque, perfino una ragazza qualsiasi figlia di gente che noi, nel nostro angolo della galassia, definiremmo “white trash”. Lo stesso addestramento di Rey è sì un’introduzione alle vie della forza ma, lungi dall’essere improntato alla formazione di un’eroe, quello impartito da Luke è un insegnamento ecumenico, anche rispetto alla preparazione che lo stesso Kylo ha ricevuto: The Last Jedi è infatti una storia di nuovi allievi e vecchi maestri e di come questi ultimi devono cedere il passo, volontariamente o meno, ai nuovi protagonisti.

“Let the past die”: è con quest’idea che Kylo si libera, e libera la saga stessa, da un villain cartoonesco e caricaturale, mostrando un’autonomia mentale e un’ambizione di cui difettava lo stesso Vader, servo e strumento dell’Imperatore fino a qualche istante prima del riscatto avvenuto grazie all’influenza di Luke.
Kylo continua a essere instabile, emotivo ed eccessivamente orgoglioso, ma acquista spessore e complessità grazie anche alla performance di Driver che riesce a trovare la misura nell’eccesso candidandosi per questo a essere la punta di diamante di un cast variegato, multirazziale (e multispecie) in cui trovano un degno posto da protagoniste perfino donne adulte e mature.

Il dualismo tra Rey e Kylo, pur essendo il fulcro del film, non cannibalizza la storia all’interno della quale tutti trovano il proprio posto in un racconto sempre più corale votato alla messa in scena di quella che è la tematica principale: l’esistenza, sempre e comunque, di un’insopprimibile e indomita speranza che ha bisogno solo di una scintilla per divampare ovunque. La “lezione” di The Last Jedi ha dunque più a che vedere con il sacrificio: non è Poe con la sua insubordinazione e la sua spasmodica ricerca dell’azione a salvare i ribelli, e nemmeno la rocambolesca missione in cui si sono imbarcati Finn e Rose, ma sono il sacrificio del vice ammiraglio Holdo (Laura Dern) e l’ultimo atto da jedi di Luke a permettere alla ribellione di continuare a esistere. Per una volta non vengono esaltati gli eroi ma i martiri, non viene celebrata solo la vittoria, ma accettato il fallimento come parte integrante della vita ed elemento necessario al ciclo dell’apprendimento. E, già che c’era, Johnson tra una grande scena d’azione e l’altra, colloca perfino una non troppo sottile stoccata alla politica attuale che lucra sulla vendita delle armi.

Se The Force Awakens aveva raccontato una storia già sentita (ma non per questo meno efficace), The Last Jedi poggia un’impronta narrativa originale e riconoscibile nell’universo di Star Wars, senza timore reverenziale nei confronti del lavoro di Lucas, senza rincorrere il consenso unanime dei fan. È il film maggiormente character driven, un’azzardo soprattutto per una space opera: della galassia da salvare non vediamo quasi nulla, giusto appena il pianeta “Casino Royale”, dobbiamo fidarci dei protagonisti e credere alle loro emozioni e aspirazioni immaginandoci i migliaia di pianeti, e i milioni di abitanti da sottrarre al giogo del Primo Ordine. Ma in fondo la prima lezione di Luke impartita a Rey è servita proprio a questo, a far sentire e percepire l’esistenza di tutto quello che non possiamo vedere o raggiungere.

The Last Jedi ci mostra tanto in termini di azione, battaglie e inseguimenti spettacolari, gratificando i nostri occhi con una sontuosa scena da combattimento tra Rey e Kylo contro le guardie del Primo Ordine. Il resto, quello che manca, possiamo anche intuirlo o condonarlo, il film conquista sul campo la nostra fiducia. Con Luke, protagonista di una poetica e suggestiva uscita di scena, la migliore a cui il personaggio poteva ambire, Johnson prende commiato dal passato, pur rispettandolo, e si lancia a capofitto in una nuova nuova avventura.



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Mara Ricci

Serie tv, Joss Whedon, Jane Austen, Sherlock Holmes, Carl Sagan, BBC: unite i puntini e avrete la mia bio. Autore e redattore per Serialmente, per tenermi in esercizio ho dedicato un blog a The Good Wife.

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1 Comment

  1. condivido praticamente tutto…sono uscito frastornato dal cinema per la quantità di eventi che si sono succeduti, e indeciso se essere dispiaciuto o contento per il finale di Luke…ho apprezzato soprattutto come il film abbia giocato per tutto il tempo con le mie previsioni per poi andare nella direzione opposta.
    L’unico rammarico è che ora sarà molto difficile attingere all’universo espanso, andando avanti con la storia (non è nemmeno detto che sia un male).
    Comunque ho apprezzato il coraggio di Johnson nel fare il salto in avanti che non ha voluto / potuto fare Abrahms

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