C’è un vecchio episodio dei Simpsons in cui a Homer viene data carta bianca per progettare quella che secondo lui è l’auto perfetta per l’uomo medio. Come prevedibile, libero da vincoli Homer sbraca e mette insieme un’accozzaglia di idee che, assemblate insieme, compongono un prototipo grottesco. Me l’immagino un po’ così la gestazione di Space Jam: New Legends, con i creativi nella writing room che si dicono: abbiamo un giocatore di basket famoso come una divinità, abbiamo decine di franchise a cui attingere, cosa mai potrà andare storto?
Intanto ho la sensazione che l’età media in quella stanza non fosse proprio bassissima, perchè l’idea di scegliere un algoritmo come cattivo della pellicola suona tanto di metafora dei tempi moderni, in cui la luce verde ai progetti su piccolo e grande schermo spesso arriva da software che scandagliano i gusti del pubblico. L’epopea di LeBron James nell’universo Warner inizia proprio così, con un algoritmo che lo sceglie come protagonista universale e digitalizzato di tutti i prossimi progetti WB: un proposta che il King rifiuta, bollandola come stupida, suscitando le ire del programma interpretato da un Don Cheadle in deciso overacting. Per rimediare all’onta, l’algoritmo rapisce dunque Lebron e prole sfidando il campione NBA ad una partita di basket con in palio la libertà.
Forse il limite principale di Space Jam: New Legends è che non prova ad essere per le nuove generazioni quello che lo Space Jam di Micheal Jordan è stato per gli adolescenti degli anni ’90, ma si rivolge ancora a quelli stessi adolescenti di un tempo, ora adulti. Sono molti i dettagli che puntano verso questa direzione, a partire dallo stile di animazione usato per la prima della pellicola, quella in cui LeBron è trasformato in un cartoon, che richiama quello delle produzioni Warner anni ’90, per arrivare a una certa diffidenza verso la tecnologia che attraversa tutta la pellicola.
Sono ancora i Simpson ad aiutarmi a trovare la metafora giusta, perchè quando Space Jam: New Legends prova invece a parlare a pubblico più giovane, durante la partita finale ed esempio, sembra il signor Burns col cappellino che cerca di spacciarsi per un compagno di scuola di Bart. “Non è basket, è come un videogioco” dice il figlio di LeBron a suo padre, ed ecco che su campo piovono canestri da 750 punti stile messi a segno dal team dei villain che sembra uscito sì da un videogioco, ma da una di quelle produzioni generiche che affollano l’app store. Ci pensa persino la telecronaca a rafforzare questa sensazione, affidata nel doppiaggio a un ingessatissimo Flavio Tranquillo che snocciola frasi di circostanza con un tono del tutto fuori contesto: ancora una volta, come in un (pessimo) videogioco sportivo.
Certo bisogna tenere in considerazione una cosa: chi scrive queste righe, in quanto millenial, è più vicino ad essere un boomer che un adolescente degli anni 20 del 2000, e la sua percezione potrebbe essere fallata: d’altra parte, con queste citazione ai Simpsons, cosa vi sareste aspettati? Può essere dunque che per il pubblico più giovane LeBron James faccia lo stesso effetto di MJ (per quanto la differenza in termini di carisma tra i due sia abissale) e non mi sento nemmeno di escludere che il viaggio nel multiverso Warner possa rappresentare un motivo di attrazione, anche se ancora una volta buona parte dei riferimenti, presenti nel variegato pubblico sugli spalti nella partita finale, paiono destinati ad essere colti solo da chi frequenta le sale cinematografiche da più di tre decenni.
Però in questo riscatto dei Looney Tunes, recuperati dall’angolo del multiverso in cui erano stati rifilati, ai danni di una versione parodistica e tamarra oltre misura dei “personaggi che piacciono ai giovani”, questo scontro generazionale padre-figlio in cui il ruolo del nemico viene riservato alla prole, questa rivincita dell’umano sulla macchina che vuole intercettarne e condizionarne i gusti, suona tanto come un messaggio che cerca di solleticare il pubblico più attempato.
Magari mi sbaglio e quello del tutto fuori target sono io, magari le parti di Space Jam: New Legends che funzionano sono molte di più rispetto ai pochi passaggi che ho registrato io (su tutti, la gag su quel possibile, clamoroso, cameo che mi ha quasi fattoi alzare in piedi in sala), ma dubito fortemente che questo seguito finirà per imprimersi nella memoria collettiva come il primo, mitologico, capitolo. Se dovessi sbagliarmi, però, vi autorizzo già da ora a darmi del boomer.
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