Non è una serie come tante, una di quelle sportive che tanto piacciono: con il campione, il fascino di una storia, l’affetto dei tifosi. L’ho cominciata ed ho visto Michael Jordan, il mio idolo di gioventù. Ho visto Michael Jordan, il mio idolo di gioventù quando giocavo a basket. Ho visto Michael Jordan, il mio idolo di gioventù quando giocavo a basket, con la 23. Non esistono altre canotte.

Voi sapete cosa vuol dire il 23? Sapete cosa vuol dire avere un idolo? Sapete quando qualcosa non è né mio, né tuo, ma nostro?
The Last Dance è la boa messa a galleggiare nella tempesta del tempo.

A casa dei Bulls

Un racconto in 10 episodi e trovo Michael, Pippen, Rodman e Phil Jackson. Giro lo sguardo e conosco Jerry Krause, GM e cervello dietro la squadra più forte di tutti i tempi. Qualche episodio e trovo il padre di Michael Jordan, il metronomo per la sua immortalità. E corro, corro ancora con altri episodi ed abbraccio, quasi, gli addetti alla sicurezza del Dio umano, uno in particolare, un “secondo” padre per Jordan. Altri tasselli, più o meno grandi, ma tutti fondamentali. Non c’è nulla di ordinario. È magia. È leggenda.

La stagione sportiva 97-98, l’ultimo ballo, come spartiacque per viaggiare nel tempo e conoscere le loro storie. Materiale esclusivo e inedito, idea geniale alla base: documentare l’ultima stagione; la fine di un decennio sportivo – anni 90 –  tra i più appassionanti di sempre; documentare la conquista del sesto anello in otto stagioni. Cosi inizia The Last Dance ed è una progressione ad oltranza, una scalata senza fiato, una fine continuamente differita.

Il Dio umano e il dono della leadership

Oggi ho un altro modo di vedere tutta la storia. Immortalità, dice The Last Dance. The Last Dance sbaglia. Michael Jordan non sbaglia. Ho bisogno di confini per potermi orientare, His Airness è la bussola. Osservo Jordan, osservo i Bulls e da cenerentola diventano i Chicago Bulls. Attorno a lui ruota il gioco, siamo negli anni 80, è il brodo primordiale. Il 23 trascina la squadra, stagione dopo stagione, carezza la palla, la afferra, la porta a canestro, scandisce i gradini di una leggenda. Il racconto si fa epico. Arrivano le sfide contro i Pistons, odiati Pistons, sono sconfitte che pesano. Arrivano i 90s, Michael è dominante ed implacabile. Conduce i compagni, arrivano gli anelli, esalta una generazione. Va alle Olimpiadi, è nel Dream Team, il mito è globale.


È il leader assoluto dei Bulls. Inizia un tutorial del pensiero vincente. Jordan si racconta, la docu-serie lo incalza. Si lascia andare, si commuove. Riconosce il dono della leadership come missione, ammette una competitività fuori dal comune; il peso e il prezzo di una vocazione. Sferza tutti: intransigente, esigente, spesso cattivo ma irraggiungibile nel suo empireo. Ad alcuni il bastone, ad altri la carota ma un unico obiettivo: vincere. Sono catapultato in un Dio umano.

The Last Dance, bellezza assoluta

Ultimo episodio, ultima stagione sportiva, un decesso atletico e mentale probabile ma posticipato sempre all’infinito. Assisto a cadute, risalite e vittorie, sono spaesato e travolto. La visione è meravigliosa, la leggenda cristallizzata: mi esalto. Il documentario non è testimonianza, è storia diversa per gente speciale. Penso a Dennis Rodman, eccentrico, bad boy, folle ma uomo chiave ed affidabile; rimbalzista tra i migliori di sempre. Meno istintivo Pippen, ma dominante da entrambi i lati del campo; uomo squadra, collante, realizzatore. Loro contribuiscono a fare dei Bulls una squadra irripetibile, la più grande squadra di basket mai scesa in campo.

Sono attaccato allo schermo, è l’ultimo ballo, l’anello che pesa di più. I Bulls si consegnano alla storia, gettano la maschera, danno l’anima, scelgono ancora di raccontare e raccontarsi. C’è il riscatto, l’orgoglio, ci sono le ultime partite delle leggende, c’è un mondo che sta per crollare e un nuovo mondo (Kobe, gli Spurs) che avanza, ed i Chicago Bulls, a festeggiare.
Evocativa, poetica e pragmatica, decido di rivederla oggi, poi domani, infine dopodomani.



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Matteo Giobbi

Una classifica delle cinque descrizioni più memorabili del sottoscritto di tutti i tempi, in ordine sparso: 1) è’n zucchero, 2) è magggico, 3) è gajardo, 4) è Romano ma tifa Milan, 5) fa n’sacco de classifiche. Aggiungo, poi, cinematografaro e musicologo ad “artissimi” livelli. Mi trovate, facile, su Players.

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