Per leggere la prima parte di questo speciale, cliccate qui.

Summa ideale e concettuale delle precedenti esperienze, Drive è il manifesto di se stesso nel modo certosino con cui l’eccezionale precisione chirurgica nello svolgere il tessuto cinematografico della prima parte, si sgretola progressivamente man mano che il “cuore di macchina” del protagonista affronta le turbolenze antiaerodinamiche del sentimento.

Un sentimento non premeditato, non congenitamente onirico, ma del tutto magnificamente casuale, che irrompe sulla scena improvviso come un inserimento in curva troppo spinto, causando derapate violente e controsterzi da rompere il fiato in gola, mentre sullo sfondo ticchetta imperterrito il ritmo di un tempo malinconicamente senza passato e inevitabilmente senza futuro, ma calato nel presente quasi fisico dell’ hic et nunc, dove tutto si consuma perché sono l’istinto e il cuore a comandarlo. Un cuore sportivo.

Summa ideale e concettuale, dunque, non perché addizione algebrica di parti, Drive ha in sé un po’ dell’anima western degli intramontabili Ford, un po’ degli action dallo stringente sapore metallico di Friedkin, un po’ delle plumbee atmosfere di velluto metropolitano di Mann, ma perché modello quasi archetipale degli stessi, dai quali l’ispirazione trae un ibrido del tutto nuovo e fresco, le cui suggestioni, come per One Eye o lo stesso Driver, affondano le radici nel cuore primordiale dell’Arte, quella di mettere in scena cucendo il modo e il tempo non sul ritmo oggettivo del giusto, ma su quello soggettivo del bello… e maledetto.

Con Drive Refn chiude il cerchio delle domande a cui dovere dare una risposta, cestinando anche il cartoccio malandato dell’etica sull’estetica, possibili permutazioni comprese, componendo con le sue più famose pellicole un quadro in grado di dare ragione persino della tela bianca, perché non c’è ragione, ma il puro sentimento che si agita sotto la trama ora grossolanamente sanguigna, ora finemente cesellata, sotto la fotografia caravaggesca, sotto la partitura squisitamente in contrasto delle musiche, sotto la regia a cambio rigorosamente manuale affinché ogni momento raggiunga i giri necessari per passare al successivo senza “affogare”.

Etica ed Estetica si compenetrano e si rincorrono come un uroboro, lo scopo dell’artista è la messa in scena della violenza, e la messa in scena realizza lo scopo di esorcizzare la violenza, perché il cinema è un atto di violenza come l’amplesso, un parto o la scultura di una statua, che sfociano in azione, sangue, colpi inferti con forza e rabbia, al fine di generare tutto e il contrario di tutto nella realizzazione suprema dell’ispirazione dell’uomo a compiere quel destino che gli si agita dentro.

C’è dell’ironia in tutto questo, come è presente in tutta la filmografia di Refn, sottile ma egocentrica come il sorriso della Gioconda, l’ironia del destino che te lo fai o te lo fai capitare addosso, tanto è la stessa cosa, in un mondo in cui tutto succede solo nell’esatto momento in cui lo guardi accadere, come al cinema e più ancora nel cinema di questo regista danese, in cui non esistono il passato o il ricordo, si va solo avanti un passo alla volta, azione dopo azione, fino all’applauso sbigottito prima del sipario.

E allora, forse, ci si prenderebbe di più con una bella barzelletta, di quelle che ti lasciano a ragionarci sopra e il momento di ridere è già bello che passato.
Uno spacciatore, un vichingo e uno stunt-man entrano in un bar… Fin.

Questa è la seconda parte di uno speciale pubblicato di Players 13, che potete scaricare gratuitamente dal nostro Archivio. Potete leggere la prima parte sul sito cliccando qui.



Players è un progetto gratuito.

Se ti piace quello che facciamo, puoi supportarci (o offrirci una birra) comprando musica, giochi, libri e film tramite i link Amazon che trovi negli articoli, senza nessun costo aggiuntivo.

Grazie!
,
Similar Posts
Latest Posts from Players