Midsommar e Hereditary sono due horror fratelli ma non gemelli, seppur condividano una marcata rassomiglianza simbolica e tematica. Entrambi sono creature del giovane sceneggiatore e regista statunitense Ari Aster, entrambi hanno la loro genesi in un periodo seminale nella carriera del cineasta. I contorni dello stesso non sono chiavi, ma Aster ne parla come di un biennio così ricco di lutti, sfortune, drammi per sé e per la propria famiglia da portarlo a pensare ai propri primi progetti artistici e alla propria vita come perseguitati da una maledizione.
Secondo lungometraggio ma primo progetto messo in cantiere dal regista, Midsommar per la sottoscritta è nettamente superiore a Hereditary. Sia per come scelga un contesto piuttosto radicale e ci si attenga, senza tentare si spiegare sé stesso o peggio rincorrere lo spettatore, sia per come rifugga le inutili complicazioni folk barocche che affossavano la seconda metà di Hereditary in una marea di nonsense e soluzioni di ripiego.
Se in Hereditary l’oscurità si traduceva anche in annebbiamento narrativo, la luce eterna svedese dona a Midsommar un’inaspettata, potente chiarezza, che rendono il film davvero riuscito.

Insomma Midsommar mi è piaciuto molto più di Hereditary, per una serie di motivi che divideremo in preferenze personali e scelte registiche oggettivamente vincenti. Partiamo dalla sottoscritta e dalla sua bassa tolleranza per i film di spavento: Midsommar per palpitazioni è quasi più un thriller che un horror e di certo la sua funzione primaria non è quella di spaventare. Casomai impressiona, con quella che stiamo imparando a capire essere una costante del cinema di Aster, dove i corpi (e in particolare le teste) sono sottoposti a improvvise, macabre brutalità, presentate con una regia e un accompagnamento musicale minimalista. Midsommar ha un paio di passaggi che virano sul gore e qualche scena impressionante legata a morti violente e mutilazioni, ma vive di tensione più che di paura e preferisce trascinare il pubblico in una visione allegorica più che in una cantina buia.

Ari Aster ed io condividiamo un’altra passione: quella per Florence Pugh, attrice che nel giro cinefilo è ormai lanciatissima e che, dai tempi dei primi ruoli da protagonista con Lady Macbeth The Little Drummer Girl, aveva lasciato intendere di riuscire a farsi notare. Dopo la donna luciferina e lo spirito libero, la ritroviamo nel ruolo di Dani, una ragazza a un passo dal crollo emotivo, costretta ad attaccarsi disperatamente ad una relazione amorosa incancrenita perché è l’unico appiglio affettivo in un mare di solitudine in cui è terrorizzata di affogare. Il suo talento davvero non comune e la sua capacità di esprimere le sfumature emotive attraverso tutto ciò che è fisico e paraverbale danno a un personaggio sulla carta “debole” una complessità e una sottigliezza davvero mirabili. Aster deve davvero ringraziarla, perché se il film non si arena è grazie a lei, che surclassa un restante cast non altrettanto incisivo. Noi cinefili potremo coccolarcela ancora per poco: tra il ruolo in Piccole Donne di Greta Gerwig a Natale e quello nel film sulla Vedova Nera della Marvel nel 2020, è improbabile che rimanga una “promessa” ancora a lungo.

Il terzo elemento di Midsommar che mi ha conquistata è l’assoluta semplicità di ciò che racconta e commenta: è un film che racconta ed esplora la fine di un amore. Non intendo dire che Aster faccia discorsi banali o terra terra (anzi) ma appunto la sua capacità di creare simboli, suggestioni e allegorie stavolta è solidamente ancorata al tema centrale del film e allo scopo di renderlo il più emotivamente vibrante possibile. Il personaggio di Dani è potentissimo perché ci si sente dentro la stessa disperazione di chi ha subito un lutto traumatico, improvviso e violento che stava alla base del colpo di scena più riuscito di Hereditary.

Laddove però là  si utilizzavano l’orrore demoniaco e le simbologie folk per fare della decorazione barocca e assecondare con inutili complicazioni il proprio compiacimento di narratore, qui rimane al centro il volto di Dani, perennemente sulla soglia dello strazio. Midsommar ruota attorno a una sorta di ricatto meschino in cui è intrappolata: il suo fidanzato Christian non ha palesemente un’alta considerazione di lei, tanto da organizzare una vacanza studio a sua insaputa con gli amici del corso di antropologia in Svezia. Quando Dani viene invitata contro voglia, vediamo i confini della sua prigione: non vorrebbe andare, ma teme di rimanere sola e rimane intrappolata nel pietismo altrui, nella falsa gentilezza di Christian che se la trascina dietro abbastanza dimentico di lei. Il ragazzo finge di essere gentile, ma senza la compassione e la sincerità necessarie per farla finita o starle davvero accanto.

Il dolore di Dani – che scoppia all’improvviso e la sovrasta – l’accompagna anche ad Hårga, una sorta di comune svedese che vive nel profondo nord del Paese, lontano da tutti, nella terra della Luce Eterna. Il lato folk horror del film si sviluppa proprio di paripasso con la visita del gruppetto di turisti statunitensi in questa realtà che mantiene abitudini e riti pagani, ancestrali e fortemente legati alla natura. Midsommar sottolinea impietoso tutto il senso di entitlement che i protagonisti statunitensi celano malamente: prima approcciandosi come antropologi alle bizzarrie della comune con sguardo accondiscendente e predatorio, nella speranza di rivendere un pezzo della propria testimonianza per far carriera, poi con il rifiuto di chi considera inferiore ciò che è radicalmente diverso da sé.

Eppure è proprio il modello Hårga – in tutta la sua apparente brutalità – a dare a Dani quel che vuole: un senso autentico di vicinanza umana e di comunità, che va ben oltre il rapporto amoroso. Midsommar vive tutto del fatto che gli abitanti di Hårga, ovvero i cattivi teorici del film da cui ci aspetteremmo le solite derive settarie e demoniache, di fatto rispettano queste premesse, spotandosi sempre di più nello spettro positivo della linea umana tracciata dal film. Inoltre questa storia ha il raro pregio – almeno per un prodotto statunitense – di raccontare il contatto con l’altro mondandolo da ogni giudizio di merito sulla base della cultura di partenza del suo creatore. Di fatto i personaggi di Hårga rimangono fedeli a sé stessi e a quelle che vengono definite aberrazioni da gruppetto di protagonisti (mai dal commento implicito di regia, musica e montaggio), i cui legami amicali, affetti e i valori sociali si rivelano mera finzione.

Un altro aspetto decisamente vincente di Midsommar è come sconfini nell’allegorico e visionario mantenendo sempre la concretezza necessaria per permettere allo spettatore di comprendere almeno il livello zero della storia. La cultura di Hårga, frullato di tante abitudini nordeuropee, leggende svedesi, pagane, ancestrali con una spruzzata qualche fittizia e horror, non è sempre immediatamente comprensibile nei suoi rimandi ma va benissimo così, perché il non capire perché una giovane metta un paio di forbici sotto il cuscino di un culla o perché gli abiti siano ricamati con specifiche rune accentua l’immedesimazione nel gruppo di protagonisti. Il discorso di fondo è così solido e chiaramente sentito dal regista, dimentico dei suoi virtuosismi di cinepresa e regia proprio in quei frangenti in cui Dani viene assalita dal dolore e l’obiettivo (a differenza del fidanzato) le sta sempre a fianco, che la splendida confezione in cui ci viene presentato è quasi un di più, una nota di folklore.

Ari Aster qui compie una scelta abbastanza estrema, ovvero quella di deviare dalle aspettative orrorifiche dei fan tirando fuori un film che è una sorta di versione visionaria di un documentario antropologico da una parte e un discorso allegorico dall’altra sulla fine di un amore. Di fatto si tratta di un film tutto ambientato in un comunità radicale svedese, ricco di strani riti e passaggi via via più estremi. L’atteggiamento che si adotta è cruciale, perché è un attimo che una scena di grande forza diventi noiosa o peggio l’anticamera della risata sprezzante. Ari Aster dalla sua dimostra di non essere sciocco e vira volutamente sull’ironia grottesca una scena così oltre da finire probabilmente in ogni caso nella risatina imbarazzata.

Non è di certo per tutti, date le sue scelte e il suo minutaggio gargantuesco (e ammettiamolo, non sempre giustificabile) ma non fatevi spaventare da chi ne sottolinea la complessità, perché il dolore di una perdita o la paura di una solitudine che diventa una trappola da cui non si sa uscire sono argomenti che possono toccare il cuore di ogni essere umano e spettatore. Il terreno di base su cui poggiare è così semplice, il resto è una bellissima fioritura cinematografica. Insomma, forse è questo il vero esordio di Aster, più semplice e dal mio punto di vista più efficace di Hereditary, dove non sempre c’è equilibrio ma i contenuti interessanti e la forma rifinita non mancano.

***

Questo articolo è apparso originariamente sul blog di Elisa, Gerundiopresente. Per continuare a leggere il paragrafo spoiler post-credit continuate a scorrere in basso. 

Spiegazione del finale di Midsommar [SPOILER] – Su vostra precisa richiesta, mancando stavolta la scena di Toni Colette che apre il primo libro della pigna con il segnalibro nella pagina con il paragrafo evidenziato con le informazioni necessarie a venire a capo del finale del film*, mi presto volentieri a una agile riassuntino terra terra.
Dunque: Dani è abbastanza smaronata da Christian sin dall’inizio, ma è in un momento emotivo fragile e preferisce cibarsi dei suoi minimi e falsi segni d’affetto che perdere anche il suo ultimo legame sentimentale: il tutto è già stato sintetizzato da quel genio di Rachel Bloom nell’iconica Love Kernels, inutile ripetersi.
La svolta arriva a Hårga, meta del viaggio in Svezia. Lì dove teoricamente Dani dovrebbe essere la più esclusa e incompresa di tutte, perché non antropologa e non realmente interessata all’assistere ai riti locali, diventa l’unica in grado di fare proprie le regole del luogo, in maniera rispettosa e partecipata.

A Hårga Dani sente progressivamente crescere attorno a lei quel sentimento di comunanza che le mancava da tempo. Diventando Regina di Maggio, Dani entra a far parte della comunità vera e propria, percependo tutti i limiti del suo rapporto con Christian. Non a caso nei vari rituali che si svolgono, viene messa in scena una sorta di allegoria del tradimento che era già nell’aria. Quando Dani piange e si dispera, lo fanno anche le altre ragazze del villaggio, con una partecipazione e un trasporto tale che Dani non ha più esitazioni. Sarà lei a indicare Christian come sacrificio finale in chiusura del film e, nel rogo che chiude la pellicola, a bruciare in chiave catartica è l’intera relazione tra i due. Dani è riuscita a liberarsi, a chiudere la storia, a trovare una nuova solidità affettiva. Il gruppo che era arrivato con lei invece ha tradito i propri legami amicali, si è comportato con noncuranza, arroganza o avidità verso quanti li ospitavano, ma soprattutto si è dimostrato incapace di comprendere e accettare questa comunanza spirituale, aggrappandosi al proprio individualismo e quindi incarnando le rune, i comportamenti peggiori a Hårga, venendo punito, anzi purificato, per questo.

*no, quella caduta di stile a Aster non la perdonerò mai. 



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