C’era una volta la Hollywood d’oro e c’era una volta Quentin Tarantino geniale iconocasta e rielaboratore del pulp in pop: entrambi non ci sono più. A porre fine a un certo tipo di Hollywood e a una certa percezione d’America non è stato l’omicidio di Sharon Tate, anche se poi quella mattanza è diventata il perno della svolta, il punto cronologico a cui appuntare il cambiamento, un’icona e un’ossessione. La storia però è un fluire lento e inesorabile, così come la filmografia di Tarantino: già da qualche tempo il suoi film davano segnali di evoluzione, anche se il punto di svolta verso un domani tutto da definire è proprio C’era una volta a… Hollywood, un film destinato a disintegrare le aspettative cinefile rispetto al cineasta e deludere quella parte del pubblico che non saprà riprendersi dal disorientamento generato dal cambiamento.
C’era una volta a… Hollywood a tratti sembra proprio la pellicola inviata all’ultimo momento al Festival di Cannes dopo che era stato annunciato che non ce l’avrebbe fatta ad essere pronta per il concorso. Non è malfatta in fase di montaggio e regia, tuttavia lascia persistente l’impressione di essere un primo montaggio con tanto lavoro da fare e con parecchi passaggi in stallo, che Tarantino deve ancora decidere se tenere o buttare, raffinare o lasciare lì come sono. Questo senso di non finito e non rifinito è in realtà voluto ma lo si capisce a posteriori; durante la visione si è assediati dalla sensazione di un Tarantino diverso, strano, meno ossessionato dal rendere iconico tutto ciò che tocca o gira. L’aspetto visivo e registico di questo film è meno accattivante del passato e lo si capisce sin dai titoli di testa, che mancano del guizzo citazionista o di camera che inserisca il film sin dall’apertura nel comparto “memorabile”.
Anzi, più il film prosegue e più si sfiora la realtà come mai prima d’ora in un film di Tarantino. I personaggi cinematografici sfociano in persone dietro e dentro lo schermo, sconfitte non dal cinema o dalla storia, quanto dalla vita. Gran parte di C’era una volta a… Hollywood è ambientata nel febbraio del 1969 a Los Angeles e cattura l’accendersi del tramonto sulla via di Rick e Cliff, rispettivamente Leonardo Di Caprio e Brad Pitt, entrambi irresistibili e davvero efficaci nei panni di due personaggi cuciti su misura sulle loro persone. Rick è un attore di western che sta prendendo consapevolezza dell’inizio del suo declino professionale, dopo la fine della serie TV che lo vedeva protagonista. Cliff è il suo suo stunt, il suo autista e il suo tuttofare, anche lui in una situazione lavorativa non semplice, con in più un fattaccio nel suo recente passato da cui nessuno – né nel film né in sala – sa se lui sia uscito da innocente o da colpevole che l’ha fatta franca.
Rick e Cliff incarnano un vecchio concetto di Hollywood e di America, che sta per essere travolto dalla controcultura, dagli anni ’70, dal nuovo e dal giovane. Los Angeles è un’incubatrice unica in questo senso, dato che Rick vive a pochi metri da chi incarna più di ogni altro il crescente successo di un modo nuovo di fare cinema e di vivere: la coppia Polanski-Tate, dirimpettaia di villa del protagonista sulle colline losangeline. Sono due mondi vicinissimi ma che raramente si sfiorano. Nella prima parte C’era una volta a… Hollywood racconta propria questi due microcosmi che si incontrano fugacemente, tra reale e fittizio, tra stelle in caduta libera e attrici in ascesa. Tanto Rick e Cliff sono preda della malinconia e di una quieta disperazione, tanto sentono che la vita con un senso e uno sprone per loro giunge al termine, tanto Sharon Tate (Margot Robbie) incarna con grande purezza la speranza verso il futuro, la curiosità verso quello che sarà, l’affrontare a viso aperto l’avvenire.
Non c’è una vera e propria narrativa portante in tutto C’era una volta a… Hollywood, che è costituito principalmente dallo sfiorarsi della vecchia e nuova Mecca del cinema e dai film nel film, dalle storie umane nella storia del cinema. A sostenere tutto l’impianto, specie nei momenti meno incisivi, è il rapporto tra Cliff e Rick, due personaggi che funzionano particolarmente bene quando sono uno al fianco dell’altro. A prima vista sembrano lontanissimi: Rick è più ricco, più famoso, più diretto e verbale nel suo agire, mentre Cliff è la sua controfigura ben oltre il set cinematografico, silenzioso e assertivo. Più il film prosegue e più intuiamo che a separarli è solo la frizione dell’orgoglio; per Rick il fallimento è (ancora) inaccettabile e gli genera amarezza, gli fa salire le lacrime agli occhi, lo rende emotivo ed alcolizzato. Cliff è Rick al netto dell’orgoglio, l’uomo che ha già accettato la sconfitta e organizzato la sua vita di conseguenza. Al loro fianco Margot Robbie risalta ancor di più come un personaggio privo di corporeità, un’ideale di cui Tarantino è disperatamente innamorato. Il film è un’omaggio a quella purezza e bellezza, ma pecca di superficialità non fidandosi della forza di Sharon persona, finendo per ricordarla ancora una volta come l’icona di un momento o di un concetto, quasi che non potesse esprimere la stessa profondità dei personaggi fittizi che le sono affiancati.
A sfiorarsi non sono sono vecchia e nuova Hollywood, ma anche bene e male, ovviamente incarnato dalle ragazze del ranch di Charles Manson, la famiglia. Sono numerose le situazioni in cui il trio dei protagonisti entra in contatto con questa realtà ancora disinnescata e apparentemente innocua. Non è un caso che il contatto più ravvicinato ce l’abbia Cliff, il più ambiguo dei buoni, ormai totalmente privo di quell’ingenuità attoriale che circonda Sharon e attanaglia Rick. Se l’amico attore è protagonista di un lungo (e riuscito) spezzone western sul set in cui Di Caprio dà una performance vibrante, Cliff è al centro dell’episodio più ambiguo e teso, quasi hitchcockiano.
Questa parentesi narrativa ha per protagonista il ranch di Manson e Pussycat, una giovanissima hippie che fa l’autostop per le strade di L.A. Il personaggio si muove a cavallo tra realtà storica (essendo sin dal nome accomunabile a Kathryn Lutesinger detta Kitty Kat) e finzione tarantiniana. Pur essendo ritratta come un corpo sessuale e oggetto dei pochi feticci del suo cinema che Tarantino si consente qui, il personaggio di Margaret Qualley – irrisolto e misterioso – è tanto concreto e ipnotico quanto la Sharon Tate di Margot Robbie è fumosa e aleatoria. La problematicità dei personaggi femminili in questo film, della violenza che viene perpetuata ai loro danni (o per meglio dire del tono che viene associato a queste scene) e la parentesi cinematograficamente infelice e moralmente problematica dedicata a Bruce Lee ci ricordano che non è solo Tarantino regista ad essere cambiato, ma anche la nostra sensibilità dentro e fuori dalla sala e non sempre il caro Quentin ne esce vincitore come in passato*.
Tarantino è cambiato e molto, come cineasta e forse anche come uomo. Se ci sono interi titoli nella sua filmografia dove la forma è la sostanza (vedi alla voce Kill Bill) qui il cineasta si libera dall’urgenza dell’estetica per mettere l’accento su ciò che gli sta a cuore. Forse C’era una volta a… Hollywood è così differente (così umano) rispetto ai precedenti film di Tarantino perché per una volta ciò che è importante non è il cinema in sé ma una realtà umana che ci vive dentro o attorno.
La realtà sfonda i confini della pellicola, con soluzioni che sfiorano l’autoriale. Prendiamo ad esempio le lunghe scene in cui Brad Pitt guida per le strade losangeline, mentre la radio sputa canzoni e pubblicità d’epoca e le insegne fuori dal finestrino dell’auto rimandano ad altrettanti omaggi e citazioni.
Il contesto è puro Tarantino, ma rispetto al passato la scena di guida non è finalizzata a un racconto narrativo e non prevede nemmeno le tre riprese tarantiniane al volante per eccellenza: niente piede sull’acceleratore, niente veduta dei sedili posteriori, niente ripresa dei personaggi dalla prospettiva del bagagliaio mentre gli stessi lo stanno aprendo. Solo Brad Pitt che guida con una meta ma senza uno scopo cinematografico e una scena che si dilata fino a metterci a disagio, a sconfinare nell’approccio autoriale vero e proprio, incurante dell’economia dei tempi e dell’attenzione dello spettatore. Il cinema è la vita vera senza le parti noiose, diceva Hitchcock e questo era particolarmente vero per il vecchio Tarantino. Se la noia fa capolino, se l’economia del racconto entra in passivo, significa che la realtà sta bussando alla porta del cinema di Tarantino e lui ha deciso di farla entrare.
La porta poi la richiude, certo, ma solo all’ultimo, nello spezzone finale ambientato sei mesi dopo quanto visto in precedenza. È lì che intuiamo davvero il senso del titolo C’era una volta a… Hollywood, il fiabesco tarantiniano che ammanta la realtà senza però scacciare davvero le ombre scure sul futuro di Rick, Cliff e su quell’America senza pensieri e senza colpe che non vuole svegliarsi. È uno splendido contrasto quello che chiude il film di Tarantino, mai così malinconico e appassionato, la cui frenata stridente nel finale non attenua ma anzi fortifica la sensazione di imminente pericolo, di oscurità incombente. Non solo su quell’America, ma anche su questa e su Tarantino stesso. C’era una volta a… Hollywood è assediato ai margini dalla realtà quotidiana che distrugge la perfezione positivista del cinema, dalla televisione onnipresente che rosicchia l’attenzione dello spettatore e i territori sconfinati del cinema, trasformando i vecchi set maestosi in ranch popolati da figure sinistre. Lo stridore, la dilatazione e la mancanza di scopo e senso non rendono C’era una volta a… Hollywood il film più bello di Tarantino, ma di certo è tra i più maturi e consapevoli, soprattutto se guardato con prospettiva futura, come un innuendo del tramonto di un’altra epoca cinematografica e di un’altra America: quella attuale.
*nella marea di articoli sugli scudi sulle varie polemiche generate dalla pellicola, consiglio questa bellissima analisi di Joelle Monique su The Hollywood Reporter, che evita partigianerie e arriva al cuore del problema.
Il Blog di Elisa, su cui è apparso in origine questo articolo: GerundioPresente
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