Questa intervista fa parte dello speciale sugli indie games apparso su Players 15, che abbiamo appena pubblicato.
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Sei stato un critico videoludico per molto tempo prima di diventare un game designer. È sempre stato nei tuoi piani o è successo “per caso”?
Fin da quando ero bambino ho sempre voluto creare giochi. Tuttavia, durante la mia adolescenza ho pensato che forse non avevo il talento per farlo, dato che ho lottato molto per imparare a programmare. Dall’altro lato, amavo scrivere, per cui ho iniziato a scrivere di videogiochi. Ho finito per farlo in modo professionale per 12 anni, la maggior parte dei quali in GameSpot, dove sono stato anche caporedattore. Amavo quel lavoro, ma non ho mai perso di vista il mio sogno; così, quando si è presentata l’opportunità di entrare nel mondo dello sviluppo ho deciso di provarci. Sapevo che me ne sarei pentito se non ci avessi almeno provato. Attualmente mi chiedo ancora se ho il giusto talento per fare questo lavoro, ma almeno posso dire che, finalmente, lo sto facendo. Adoro lavorare nello stesso settore di molti dei miei “eroi”.
Quando ti guardi allo specchio, cosa vedi? Un uomo che scrive e crea videogiochi o un uomo che scrive storie che potrebbero essere usate nei videogiochi? In altre parole: ti senti un autore di videogiochi? Credi si possa parlare di autorialità in questo settore?
Provo a evitare di guardarmi allo specchio per troppo tempo. I miei genitori mi dicevano che avrei dovuto scrivere un libro, e io dicevo loro che volevo scrivere videogiochi. Il modo in cui penso e strutturo una storia per un gioco è diverso da quello in cui lo farei se stessi provando a scrivere un romanzo, una sceneggiatura o qualcosa del genere. Il game writing è una disciplina a sé. Mi sento un autore nel senso che la storia di Bastion è qualcosa che ho scritto io.
Allo stesso tempo, lavoro con un team incredibilmente talentuoso, e il gioco non esisterebbe se non fosse stato per le altre sei persone che ci hanno lavorato insieme a me. Il nostro è un processo di natura altamente collaborativa, dove l’influenza e le opinioni personali di ognuno sono visibili nel risultato finale. Ogni membro del team, inoltre, è particolarmente esperto in uno degli aspetti chiave del gioco. Per esempio, Jen Zee, il nostro art director, ha ideato il look del gioco e quindi tutti gli artwork. Darren Korb, il nostro direttore audio, ha creato tutte le musiche e gli effetti sonori, e ha registrato tutto il parlato. Il resto di noi ha dato un feedback sul loro lavoro, ma alla fine dipende tutto dai singoli individui, che devono dare il massimo nei rispettivi ruoli. Da questa prospettiva, vedo lo sviluppo dei giochi più come uno sport di squadra che come una performance in solitaria. Chiaramente, ci sono alcuni sviluppatori che hanno il talento per fare tutto da soli. Ma io non sono uno di loro.
Stiamo parlando di indie games, ma tu hai lavorato anche per Electronic Arts, probabilmente la più grande azienda di videogiochi al mondo. Stavo leggendo la tua biografia sul sito aziendale, ed è saltato fuori che è proprio lì che hai conosciuto questi ragazzi (Amir Rao e Gavin Simon), e insieme avete deciso di lasciare EA per fondare Supergiant Games. Perché?
Sì, è proprio così. Ho conosciuto Amir e Gavin, i co-fondatori di Supergiant Games, mentre stavamo lavorando a Command & Conquer in Electronic Arts. Abbiamo voluto provare a fare qualcosa di nostro per una serie di motivi. Eravamo molto ispirati da ciò che stava succedendo con i piccoli giochi scaricabili, giochi come Braid, Castle Crashers e Plants vs. Zombies. Erano fatti da team molto ristretti, ma con un elevatissimo livello di qualità. Erano fantasiosi e specifici. E, sulla loro stessa linea, ci piaceva l’idea di fare qualcosa di più personale. Ci sembrò il momento giusto per provarci.
In merito al processo creativo, quali sono le differenze che hai notato tra il lavorare per una grande azienda come Electronic Arts e in una piccola realtà come Supergiant Games?
Ho notato molte differenze tra un grande studio e uno più piccolo, e la maggior parte di queste hanno a che fare con le persone coinvolte nel processo di decision-making. In Supergiant Games ci sono, ovviamente, molte meno persone coinvolte in questo processo, il che significa che le decisioni possono essere prese più velocemente.
Inoltre, siamo in grado di prendere delle decisioni semplicemente basandoci sulla fiducia, sulla fede, sulla pazzia o su qualsiasi altro strano fattore, mentre in un grande studio ci sarebbero tante buone ragioni per non fare questo tipo di scelte. L’intero scopo di un dato progetto tende, inoltre, a essere molto diverso. In EA, un gioco deve vendere milioni di copie per avere ragion d’essere – per coprire i costi di produzione e generare profitti. In uno studio più piccolo, come il nostro, la pressione che sentiamo nel fare qualcosa di grande non ha la stessa origine, in quanto non dobbiamo vendere milioni di copie solo per tirare avanti.
In definitiva, il nostro è un processo molto “affiatato”, una collaborazione tra un gruppo di amici che si sostengono a vicenda per raggiungere degli standard elevati. È stato un cambiamento, come dire… rinfrescante rispetto al lavorare in un grande studio. Non credo che l’uno sia necessariamente meglio dell’altro, anche perché, dopotutto, dipende dalle persone con cui lavori.
Pensi che presto i publisher scompariranno (o, almeno, che cambieranno il loro modus operandi)? Con il crowdfunding e grazie a piattaforme come Steam e Xbox Live, sembra che il loro ruolo stia diventando sempre meno importante…
Penso che i publisher stiano passando dei momenti difficili in questo periodo, ma è così anche per gli studi di sviluppo. Fare giochi è ancora molto difficile, ma al tempo stesso penso che non sia mai stato così facile. E con delle barriere così basse c’è un sacco di concorrenza. Sebbene molti aspetti della game industry procedano in maniera ciclica, gli ultimi anni sono stati particolarmente caotici e imprevedibili, secondo me.
Tradizionalmente, il potere di un publisher si basa sulla sua abilità di distribuire un gioco in tutto il mondo e sul marketing. Con la distribuzione digitale che prende sempre più campo, il ruolo dei publisher deve evolversi di conseguenza. Non invidio il tipo di pressione a cui sono sottoposti in questo periodo, anche se non penso che nessun publisher o sviluppatore possa permettersi di sedersi sugli allori, altrimenti tutto cambierà prima che se ne rendano conto, e saranno lasciati indietro. Il modo in cui la gente gioca sta cambiando, e le aziende che fanno giochi devono lavorare sodo per adattarsi a questo cambiamento.
Ti sei fatto un’idea sul perché gli indie games (e i loro sviluppatori, ovviamente) stanno avendo così tanto successo? È come se stessimo tornando indietro nel tempo. Io un’idea ce l’ho (e so che è un po’ semplicistica): penso che la gente si sia stufata a morte degli sparatutto in prima persona. Io, almeno, mi sono stancato di sicuro! Che ne pensi?
È difficile generalizzare quando si mettono a confronto gli indie games e i giochi full-retail, ma anch’io penso che la ragione del successo di alcuni giochi indie sia molto semplice: possono essere dei giochi davvero ottimi. Al loro meglio, sono ben curati, ben supportati, profondi, specifici, unici ed economici. Come non farseli piacere? Con la distribuzione digitale, possono raggiungere un pubblico molto ampio. E, riguardo alla questione da te sollevata, questi piccoli giochi possono essere molto diversi, in senso positivo, dall’offerta tipica dei giochi retail attuali. Siamo in una fase del ciclo vitale delle console in cui è molto difficile e rischioso creare nuove proprietà intellettuali per il mercato full-retail, per cui quasi tutto è la riproposizione di franchise già esistenti. Questo crea un’opportunità per i piccoli giochi, che possono riempire il vuoto per quei giocatori infastiditi da questa situazione di stallo.
Parliamo di Bastion. Ho davvero amato il gioco, anche e soprattutto per via di quella voce che mi faceva notare di essere morto cadendo da un burrone. Tecnicamente, ho sempre immaginato che funzioni come la telecronaca in un gioco sportivo, dico bene? Com’è nata quest’idea? Penso che sia molto interessante e che possa essere utilizzata anche in giochi più grandi…
Mentre ci lavoravamo, abbiamo pensato anche noi alle somiglianze tra il nostro uso della narrazione in Bastion e il commento nei titoli sportivi. La differenza principale sta nel fatto che in Bastion c’è una storyline che il narratore deve rispettare. È stato molto importante per noi non limitarlo a dare un commento play-by-play: sapevamo che sarebbe risultato ripetitivo molto presto. Al contrario, la nostra regola era che il narratore, riga dopo riga, avrebbe dovuto fornire al giocatore delle informazioni che quest’ultimo non avrebbe potuto scoprire da solo. Il narratore è lì per contestualizzare e per fare da guida al giocatore all’interno del mondo di gioco – e chiunque ci abbia giocato sarà probabilmente d’accordo nel sostenere che si tratta di un personaggio molto importante.
L’idea di usare questo tipo di narrazione è nata dal desiderio di avere un gioco che non interrompesse mai l’esperienza del giocatore in favore della storia, ma che avesse comunque una profondità narrativa. Inizialmente non sapevamo come raggiungere entrambi questi obiettivi; poi, Amir chiese a Logan Cunningham, un suo amico d’infanzia, di registrare alcune frasi basate sulla storia che avevamo in mente. L’effetto fu subito molto promettente e così decidemmo di andare avanti. Non avremmo mai pensato di usare il voiceover in maniera così estesa se non avessimo avuto a disposizione qualcuno come Logan.
Ultima domanda. Forse so già qual è la tua posizione in merito, o forse no. Comunque, pensi che la narrazione sia importante nei videogiochi (e intendo nei videogiochi in generale, inclusi i piccolo giochi indipendenti)?
I miei giochi preferiti sono sia quelli che potrò giocare per sempre, sia quelli che ricorderò per sempre. I giochi che potrò giocare per sempre tendono ad avere delle meccaniche di interazione straordinariamente complesse, come Street Fighter II, Dota 2 o Counter-Strike. Dall’altro lato, i giochi che ricorderò per sempre sono quelli che hanno avuto su di me un forte e inatteso impatto emotivo, e in molti casi è successo per via del loro uso della narrazione.
Quindi sì, penso che la narrazione sia importante nei giochi, ma non penso sia essenziale in tutti. È anche qualcosa che mi interessa molto e voglio che sia un aspetto centrale della mia carriera come sviluppatore. Penso che i videogiochi come medium abbiano il potenziale di narrare storie in modi unici, e gli sviluppatori hanno la responsabilità di esplorare questo potenziale, invece di affidarsi a tecniche proprie di altri media come il cinema. I giochi sono definiti dalla loro interattività, e credo che l’incontro fra interattività e narrazione sia una materia affascinante, che spero di poter continuare a esplorare nel mio lavoro.
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Grazie!
Questo gioco mi ricorda graficamente “The Story of Thor” per MegaDrive :-)
Un po’ sì, effettivamente, anche se ovviamente è molto più bello con la grafica in HD e tutto. Secondo me vince in particolare per le scelte cromatiche (e il narratore, che fa proprio una differenza abissale).