C’era una volta l’America anni ’60, coi suoi colori sgargianti e fittizi, le casette a schiera e le famiglie infelici, con i suoi ordinari orrori domestici di sopraffazione manipolatoria e imbonimento delle masse, finzioni pubbliche e conflittuali copyright: America ieri, America oggi, quella che si riflette nella storia di Margaret e Walter Keane.
Una storia vera, ordinaria nelle sua prevaricanti dinamiche relazionali, di potere e di gender, eppure al contempo incredibile a dirsi; ma è anche, nelle mani di un artigiano di colori ed evocazioni umorali come Burton, una fiaba filtrata dall’inquieto scrutare dei bambini sperduti nelle opere di una donna altrettanto fragile, vibrante, assorta, che getta il silenzio e il mistero della sua interiorità in dipinti docili ma sferzati da un unico lampo di anormalità, di irrompente distorsione, di svincolamento dalle catene canoniche.
Sono quegli occhi senza riposo, senza fondo e senza pace, unici custodi della verità, gli unici a guardare la stanza proibita in cui si consuma il fantasma di Margaret Keane, al secolo Peggy Doris Hawkins che si nasconde prima come donna, perché, ca va sans dire, una donna negli anni ’60 era impossibilitata a farsi strada nel mondo dell’arte – proprietà indissolubile dell’uomo –, sia come individuo, strappata alla sua identità di creatrice a causa delle grinfie uno showman irresistibile all’esterno, ma blando, inetto, triste senza talento all’interno (delle spoglie mura dell’ingombrante villa costruita, così come il loro capitale, su una menzogna).
“With your big eyes, and your big lies”, canta Lana Del Rey, perfetta musa per intonare questa parabola di inganno, caduta/ascesa, e redenzione – o meglio riaffermazione. Non altrettanto vivido è proprio Burton, non tanto perché doma lo slancio visionario e dark (che in Dark Shadows era sbrindellato e sbilanciato), facendolo emergere in un’unica sequenza, quanto perché incapace di elevare con il suo tocco un tempo fatato un film di buona fattura dalla medietà, di far prendere il volo alle vicissitudini a specchio di due rette parallele ma respingenti quali sono le figure di Margaret (implosiva, remissiva, stupita, ottimamente inquadrata Adams) e di Walter (caricaturale, opposto, straripante e fin troppo senza freni Waltz).
I due appaiono impegnati in un duetto convincente e sempre più teso, ma che sfocia in un finale bruscamente sopra le righe, fastidiosamente dilatato, che porta a un estremo negativo l’andamento superficiale e mai sferzante e perturbante che Burton mantiene per tutto Big Eyes, illuminato a sprazzi troppo brevi da un’ombra fugace, in potenza, quella che attraversa gli occhi della Keane nel momento in cui osserva sgomenta la produzione in serie delle sue opere, posterizzate, cartolinizzate, rese gadget, soprammobili, commercio denaro.
Ideale rifrazione, questa, di ciò che è avvenuto alla poetica di Burton, ormai moda, marchio, marketing (con quel Nightmare Before Christmas protagonista in qualsiasi Disney Store possiate incrociare), manipolata dal sistema e dagli studios, lontana da quella freschezza e quella libertà eversiva e iconoclasta vissute un tempo: e la libertà dalle catene commerciali è ciò che, forse, l’autore vorrebbe rivendicare, una sorta di purezza, sorella della maternità artistica che dal canto suo Margaret infine riconquista.
Ma sono solo barlumi, ipotesi, suggestioni che ribollono su una membrana retrattile che si scricchiola e sfalda a un tocco più profondo, a una sonda più intrusiva. Alla prossima emersione, Tim, e speriamo la prossima volta di (ri)vederti davvero.
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