Quante volte si può riproporre il solito canovaccio con minime variazioni ambientali? Se parliamo di commedie romantiche la risposte è “un numero pari alle stelle del firmamento”.

Basato sull’omonima grahic novel, Marry Me è la storia di Kat Valdez, superstar della musica, la cui vita è tutta a beneficio di camera e diretta social, incluso l’imminente matrimonio con il collega. La cerimonia nuziale, anticipata da un singolo di successo – Marry me, appunto – si sarebbe dovuta tenere in diretta streaming durante un concerto, peccato che poco prima del “sì”, Kat scopre il tradimento del fidanzato. Una volta sul palco, vestita con un abito dall’effetto lampadario veneziano – carichissimo e scintillante – decide di spiazzare tutti, inclusa sé stessa, pescando tra il pubblico uno sconosciuto a caso per renderlo il suo legittimo consorte.

Il fortunato è un professore di matematica, un padre single dall’indole mite e generosa. Quello che inizia come uno stunt pubblicitario, però, si trasforma ben presto in un sentimento reale: l’ennesima storia tra la superstar assediata dai media, ma a caccia di normalità, che incontra il bravo ragazzo di solidi principi, l’unico a desiderarla non per interesse ma per la sua anima.

marry me

La trama ricorda mille altri film, ma soprattutto Notting Hill. La differenza è che Julia Roberts e Hugh Grant hanno funzionato decisamente meglio, la sceneggiatura era ironica e sostenuta dall’impagabile british humor che in Hugh Grant trova immancabilmente la sua massima espressione. Il setting londinese, poi, fa il resto creando un’aria snobisticamente romantica. In Marry me, Jennifer Lopez di fatto interpreta sé stessa, quindi difficile sbagliare, ma Owen Wilson ha costantemente l’aria di chi rimpiange Tom Hiddleston con cui ha formato una coppia decisamente più affiatata e ben assortita nella serie Loki.

Il film, più che su una graphic novel, sembra basarsi sulle canzoni di Jennifer Lopez, in particolare Jenny from the Block e Love don’t cost a thing. Il suo personaggio, nonostante la fama, gli stramiliardi e la vita trasformata in prodotto da consumare famelicamente in live streaming, ci tiene a far capire che lei è la stessa di sempre. Kat dentro di sé, in fondo alle borse di Prada, tra le mille persone che la servono e la riveriscono, negli angoli più bui del superloft newyorkese è rimasta la ragazza che era prima della fama. Mi piacerebbe sapere perché si dà sempre per scontato che questo sia un bene, e per quale motivo qualcuno dovrebbe faticare enormemente e sopportare – immagino – sacrifici, rinunce e mortificazioni per ottenere uno status dal quale non si vuole essere cambiati perché ciò che si persegue con le unghie e con i denti può solo cambiarci in peggio. Magari, se si ha paura che celebrità e successo corrompano la nostra vera essenza, potrebbe essere un’idea non inseguirli affatto ed evitare di vivere sotto i riflettori per il resto della propria la vita.

Ma queste sono riflessioni che non trovano posto in una rom-com che punta tutte le fiches di cui dispone non certo su sceneggiatura e regia, trascurabili e anonimi, ma sulla star protagonista. Va detto a tal proposito che J.Lo non è tipo da limitarsi a eseguire il compitino richiesto: quando è impegnata in un progetto, si dà completamente e questo è accaduto tanto in Maid, altra commedia romantica, che in Hustlers con cui puntava audacemente agli oscar; tanto in The Wedding Planner, altra mediocre rom-com, che in Outh of Sight di Soderbergh, o The Cell di Tarsem Singh.

marry me

In Marry Me, l’etica del lavoro di Lopez è sempre la stessa: è convinta, i brani sono orecchiabili, l’esecuzione perfetta, sale sul palco della finzione con lo stesso piglio e la stessa atleticità che sfoggerebbe in un concerto live, ma alla fine nulla può per riscattare un film prevedibile, ulteriormente banalizzato da una sceneggiatura piatta che neanche si pone il problema di dover riscattare i personaggi dall’essere cliché ambulanti e le scene clou dall’essere indifendibili luoghi comuni: la migliore amica grillo parlante, la bambina tanto carina che ha solo bisogno di credere in sé stessa per sbocciare, il ballo studentesco come crocevia narrativo, la corsa finale in aeroporto, l’amore dell’uomo qualunque che vince sul fascino superficiale dello stardom.

Infine, Owen Wilson non porta assolutamente nulla al personaggio, e la sceneggiatura non gli dà assolutamente nulla su cui lavorare: è questa la vera coppia “fatti l’uno per l’altra” del film.

 



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Mara Ricci

Serie tv, Joss Whedon, Jane Austen, Sherlock Holmes, Carl Sagan, BBC: unite i puntini e avrete la mia bio. Autore e redattore per Serialmente, per tenermi in esercizio ho dedicato un blog a The Good Wife.

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