2011, Shame. Steve McQueen, Michael Fassbender. 2013, Nymphomaniac. Lars von Trier, Charlotte Gainsbourg. Brandon e Joe. Un uomo solo, sofferente, alienato. Una donna sola, consapevole, annaspante. Due patologie, due vortici feroci. Un centro nevralgico pulsante, che li corrode, che li consuma, che li ossessiona, li maledice e li fa, loro malgrado, respirare. La sessualità.

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Brandon ne è arso ogni giorno, ogni minuto della sua esistenza, ne è divorato vivo. La sua dipendenza, che si sfoghi nella masturbazione o in un ménage à trois, la divora sempre da solo, le altre o gli altri non sono che un grimaldello, pezzi di carne in cui affogare per urlare e dimenticarsi. Per Brandon si tratta di dolore esistenziale, autopunitivo, automatismo disperato, gorgo in cui ci si crocifigge. E non sappiamo nulla di lui, solo che “viene da un brutto posto”. Il resto, forse, possiamo immaginarcelo.
Per Joe il sesso è una modalità che si sviluppa, attraverso radiografie visive, per salvarsi da un sentimento di desolazione ontologica, per trovare un senso a un mondo che le appare senza ragion d’essere. La seguiamo da quando è una bambina fino a quarant’anni dopo, cadiamo con lei nel burrone talvolta spiazzante talvolta irriverente talvolta scioccante della sua depressione, del suo interrogare il proprio corpo e le proprie pulsioni, della disperata illusione di trovare finalmente qualcosa di più nel tramonto.

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Per entrambi il sesso non è fare l’amore, la fusione, il viluppo corpo e anima, sudore e ossa, con la persona amata; non è nemmeno fornicazione come godimento, piacere carnale, liberatorio; non è pratica riproduttiva, per rigenerare l’essere umano sulla terra. Il sesso è eteroindotto, dal mo(n)do in cui si vive, da quello da cui si vuole scappare, dalla sua insensatezza. Dal proprio modo di essere, dal suo effetto. Un sostituto, per Brandon, di una lama, una frusta, del cilicio; significante, per Joe, di un’ancora, per rimanere a galla, per quanto poco senso abbia farlo.

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Il sesso per Brandon è una caverna oscena, in cui nascondersi, in cui salvarsi, in cui annullarsi e distruggersi.
Il sesso per Joe (nel Vol. 1) è prima istinto infantile, poi gioco complice con un’amica dal fare adulto che la circuisce e la affascina, infine necessità per (provare a/salvarsi dal) vivere. Ma il sesso per Joe (nel Vol. 2) si tramuta in un gorgo rovinoso di violenza, perdite, devianze inaccettabili, impulsi politicamente scorretti, una ricerca inesausta e inaudita di se stessa, e infine una riappropriazione, una fiera affermazione della propria natura, bella anche se e proprio perché storpia (“Sono una ninfomaniaca: e sapete cosa, questa lussuria oscena, questo mio desiderio, mi piace”). In Shame è appunto, fonte di vergogna, in Nymphomaniac è rabbioso baluardo, è fierezza. E così non v’è posto, nella vita di entrambi, per l’affettività. Per Brandon, l’amore è inconcepibile se accostato a quel malessere senza via d’uscita che per lui rappresenta ormai il sesso (come potrebbe essere la droga, l’alcool, il gioco). Una dipendenza che non può fargli del bene, non può essere purezza. Nella bellissima scena, senza stacchi di macchina, in cui lui e la donna con cui esce si annusano, si sfiorano giocosamente, quando è il momento di fare sul serio si ritrae, il suo corpo gli sfugge di mano, la vertigine, la vulnerabilità sono smascherati dal sentimento nascente. Per Joe, l’amore, come insegnato dalla sua setta femminile, è l’ingrediente segreto del sesso: l’uomo che ama e ricostruisce per puzzle di immagini, però, una volta conquistato non le fa provare nulla. Il mito, l’incanto dell’amore scivola via anche a lei, la sua potenza salvifica non le è raggiungibile. Non basta. Per entrambi, l’amore non è contemplato.

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Dunque, Shame e Nymphomaniac sono due film quasi antitetici, se escludiamo il tema comune e portante del sesso patologico: Shame è un requiem elegante, virtuosistico, rarefatto e quasi videoartistico. Nymphomaniac è un’opera spezzata, nervosa, che si dibatte tra la ricerca di un ordine scientifico, critico e analitico e l’esplosione centrifuga, disturbante, fastidiosa della follia, dell’indicibile, del disumano. Ma soprattutto, Shame è un cammino di redenzione, dal sesso come surrogato di dipendenza autopunitiva, lavato via grazie alla pioggia e a un barlume di legame familiare; Nymphomaniac è un salto in lungo verso un abisso interiore finalmente abbracciato, un percorso di conoscenza (e coscienza, e conferma) di sé. Caduta e risalita, in entrambi; e infine entrambi, sorprendentemente, catartici.



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