Non parliamo dell’album del Boss, anche se il film di Alexander Payne, oltre a portarne lo stesso titolo, risente di un medesimo ambiente storico-geografico, e soprattutto emozionale: le marcature della nostalgia, la fatica della vita e il pessimismo agro del presente risuonano tanto in Springsteen quanto nella storia – piccola, minimal, indie – di Woody Grant (Dern, meraviglioso, scandaloso che sia il primo ruolo da protagonista).
Ha l’Alzheimer?” chiede una segretaria con espressione dispiaciuta a suo figlio David. “No semplicemente crede a ciò che la gente gli dice”, risponde lui. E ha ragione.

La demenza senile è indubbiamente, per un uomo già di per sé mortificato da un corpo che avvizzisce, danno e beffa. Mentre con l’avanzare dell’età arretra anche la considerazione altrui, il rispetto, per chi soffre di quella brutta bestia chiamata Alzheimer rischia di venir meno anche la propria dignità: e, per beffa, anche la possibilità di poterla difendere.

Così un uomo buono, generoso, schietto e con le idee chiare sul mondo si trova a ripetere senza soluzione di continuità una fuga verso l’ennesima fregatura del reale perché ormai non sa più “nemmeno dove si trova e cosa gli succede intorno”. Ma mantiene, quella sì, la dignità, la sua natura dignitosa e schiva protetta dal burbero intestardimento, dalla sua purezza nel credere alla realtà come gli si presenta, come dovrebbe essere. E dunque se arriva una lettera che gli dice che ha vinto un capitale, lui ci crede, checché ne dica quel disilluso di suo figlio David. Un sogno purchessia, un miracolo tonante che si desidera ancora possibile, ancora nostro.

Nebraska è forse il film più pienamente riuscito e compiuto di Payne, dove la schiantante ironia cinica di Sideways si unisce alla malinconia di Paradiso Amaro e A proposito di Schmidt, in maniera decisamente più efficiente e coinvolgente.

In un bianco e nero che rischiara e fa risaltare tutte le gamme cromatiche delle emozioni e i sussulti di un rapporto, quello tra padre e figlio, che si riscopre e rigenera, Payne – per la prima volta su uno script non suo – tiene saldamente le redini di una regia di un controllo, una limpidezza, una dolcezza bilanciata che in lui non ha precedenti: nella costruzione dell’inquadratura, nella durata delle scene, nell’essenza bifronte di qualsiasi accadimento, sempre un po’ buffo e sempre un po’ triste. A un passo dalla disperazione, impalpabile, ma esistente. E pure una scena potenzialmente trash come il cercare una dentiera tra le rotaie diventa semplicemente sketch tragicomico.

Intanto, mentre disegna compagini umoristiche dei parenti di Woody, Payne indaga la provincia americana e l’immobilità catatonica dei suoi scarni abitanti, l’ipocrisia tutta locale tutta universale di chi viene a batter cassa da un anziano che a malapena ricorda il su nome. Senza dimenticare la politica, che affiora senza stonare, come nella sequenza del medico (“Ha vinto un milione di dollari? Le basteranno appena per pagare l’ospedale”).

Non tutto funziona sempre: la sceneggiatura di Bob Nelson in alcuni momenti calca la mano sul vetriolo (pare ormai irrinunciabile per far scattare la risata il connubio “anziani” + “discorsi scurrili” e/o “discorsi sul sesso”, qui comunque contestualizzati benché abusati, soprattutto nella triturante rompiscatole Kate), c’è qualche didascalia evitabile – alzi la mano chi all’ennesimo nominare “il furgone” non ha visualizzato il finale in un lampo. Ma in fondo importano poco le svolte di prevedibilità, in un’opera che si presenta semplice e priva di orpelli: Nebraska va oltre l’ammiccamento divertito sebbene un po’ amarognolo, perché quello di Payne suona come un grazie, un sorridente porgere la mano a quella parte di società e umanità ridotta a minoranza e lasciata a se stessa, quel pezzo d’America e in generale di Storia che, esaurita la sua funzione ‘operativa’ e sociale, viene lasciata a macerare nell’umiliazione delle sue malattie, nella frustrazione del non riconoscersi più.

Certo, Woody, scopriamo gradualmente, non è comunque mai stato un padre perfetto: se David lo chiama ubriacone non è per scatenare l’ilarità del pubblico, e nello sguardo sconfortato e un po’ attonito di Will Forte scorgiamo tutta la fatica di un’infanzia con una madre padrona e un padre distante e di poche parole. Il quale ha sciolto nell’alcol, probabilmente, gli spettri della guerra in Corea che, a insaputa della sua famiglia, ha inciso su di lui molto più di quanto mostri (lo ha capito solo una vecchia fiamma, apparizione timida e gentile e forse il personaggio più bello). Fantasmi che nel finale gli sfilano sotto gli occhi, guardandolo chi con ammirazione, chi con soggezione, chi con invidia e chi, infine, con amore, tenerezza, malinconia per un tempo che sfuma ma che finalmente Woody può guardare dall’alto, tenere sotto controllo. Con la medesima placidità con cui ha attraversato il film, l’ultimo viaggio, la sua straight story, la sua vita.



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