The Gentlemen

Fletcher (Hugh Grant) è una vecchia volpe di quella macchina della diffamazione che gli inglesi chiamano tabloid. La sua vittima, o l’obiettivo della sua inchiesta a seconda dei punti di vista, è Mickey Pearson (Matthew McConaughey), l’assoluto dominatore del mercato della marijuana londinese, reo di aver snobbato il direttore di Fletcher a un evento mondano. Mickey, tuttavia, è in procinto di cedere la sua redditizia attività e ritirarsi in un agiato prepensionamento, quando l’intervento di Fletcher rende la transazione decisamente più complessa. 

Dopo essersi prestato a una serie di operazioni più commerciali (King Arthur), in cui ha comunque provato a infondere la sua visione pur prestandosi alle richieste del franchise (Operazione U.N.C.L.E.), senza per altro riscuotere grande successo al botteghino, Guy Ritchie torna al suo cinema con The Gentlemen. E lo fa in grande stile, con un cast di altissimo livello e una sceneggiatura che rimanda alla vena rock’n’roll che lo caratterizza fin dai primissimi lavori.

The Gentlemen

La Londra di The Gentlemen è la Londra di Guy Ritchie, un sottobosco affollato di piccole e grande figure criminali, boss e sgherri, galoppini  e luogotenenti, in cui gli incroci di destini si rivelano spesso fatali, con abbondanti spargimenti di sangue, di pallottole e di cazzate, quest’ultime rigorosamente pronunciate con un’inflessione inglese indecifrabile a chiunque passi la sua vita poco lontano dal Big Ben.  

I tempi di The Snatch e Lock & Stock sono però ormai lontani, e si vede. Anche Ritchie è invecchiato, ne ha passate parecchie, e si è ritagliato un suo spazio nell’ecosistema cinematografico. Un po’ come il suo Mickey Pearsons, ha raggiunto uno status di relativa tranquillità dopo essersi fatto la gavetta, seguendo però un percorso opposto, dal Regno Unito a Hollywood. Pur rimanendo un cinema di gangster, The Gentlemen riflette alla perfezione la diversa posizione sociale di Ritchie, oggi. 

Se The Snatch sguazzava (letteralmente) nei bassifondi, mentre l’occhio della camera seguiva le vite di chi si sporca le mani sul campo, le vicende di The Gentlemen invece si intrecciano altrove. Tra la cucina di design e il barbecue scaldapiedi (e senza fumo) di Ray (Charlie Hunnam), il braccio destro di Mickey a cui Fletcher si rivolge per tentare un’azzardata estorsione; sugli spalti dell’Emirates Stadium, dove si consumano le macchinazioni tra Matthew e “Occhio asciutto” per mettere le mani sull’impero di Mickey a prezzo scontato; o ancora tra le immense tenute degli eredi spiantati dell’aristocrazia britannica, nascondiglio ideale per le piantagioni di Pearson. 

Anche il cinema di Ritchie si è ripulito, pur senza perdere smalto. La sua regia non è più una corsa a perdifiato dal primo all’ultimo fotogramma. The Gentlemen si concede quando serve momenti di quiete, ragiona e prende fiato prima di scattare all’improvviso. È meno inquieto, meno irruento, ma conserva ancora abbondanti dosi di sangue caldo per esplodere in momenti di eclatante spettacolarità ed esuberante violenza. Non si è imborghesito Ritchie, anche se frequenta i piani alti. Ha imparato a comportarsi bene a tavola, ma dentro non ha perso un grammo del vecchio smalto. Frequenta ancora i pub, ma nella calma del pomeriggio, con un guardaspalle sulla porta. E se i suoi attori non sono più terzinacci spaccagambe, ma figaccioni da poster, meglio comunque non farli incazzare. 

Ritchie e il suo cinema sono ancora quelli che possono romperti una bottiglia intesta dal nulla, durante una conversazione fino a quel momento pacifica. Solo che ora vedono la vita dal punto di vista di quelli con qualche capello bianco. Come Hugh Grant, il cui corpo mostra i segni di una vita vissuta intensamente, ma che con le rughe ha guadagnato anche doti recitative che ne fanno il vero mattatore della pellicola. O come Colin Farrell, perfetto nei panni di un Coach che vorrebbe sinceramente portare i suoi ragazzi sulla retta via.  Quell’ambiente un giorno sarà loro, forse. Ma oggi è bene si lascino guidare da chi è già stato triturato da meccanismo, ed è riuscito ad emergerne in qualche modo integro, riprendendosi il suo posto. 

È emblematico che in una delle scene finali del film, mentre Fletcher prova a piazzare una sceneggiatura a un produttore cinematografico spacciando un finale aperto per un sequel assicurato, campeggi la locandina di Operazione U.N.C.L.E. Nemmeno Ritchie nasconde i segni che la vita e la carriera gli hanno lasciato addosso, anzi li rivendica, come chi non si è fatto maciullare dal meccanismo e alla fine si è ripreso il posto. “Per essere il re della giungla, non basta comportarsi da re. Devi essere il re. Non devono esserci dubbi: perchè i dubbi creano caos, e ti portano alla rovina.” dice in apertura di film McConaughey, guardando verso un punto imprecisato su cui i titoli di testa imprimono il nome di Guy Ritchie.  E se la strada è un giungla, Hollywood non è poi tanto differente. 

 



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Claudio Magistrelli

Pessimista di stampo leopardiano, si fa pervadere da incauto ottimismo al momento di acquistare libri, film e videogiochi che non avrà il tempo di leggere, vedere e giocare. Quando l'ottimismo si rivela ben riposto ne scrive su Players.

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