C’è un baby robottino smilzo che cammina come un gangster di periferia e ha il lessico di un bambino di tre anni. C’è Dev Patel, la faccia stranita paro paro a come l’aveva in The Millionaire, che cerca di inculcare al sensibile androide la passione per le belle arti, per lettura, pittura, poesia. C’è un criminale da quattro soldi più fuori di lui che vuole utilizzare il piccolino per svaligiare una banca, incurante del fatto che il robot a momenti teme anche la sua ombra. Poi c’è un bellicoso Hugh Jackman che fa le facce brutte e che guarda da lontano la scena sognando caos e distruzione, e probabilmente anche la rielezione di Bush.
Non siamo impazziti e non è una barzelletta: è Humandroid, aka Chappie (il nome tanto dolce del cucciolo di ferraglia, appunto), terza fatica di Neill Blomkamp, proprio lui, l’autore di District 9 che stavolta si è proprio voluto divertire. Possiamo quasi immaginarcelo, sul set, che ride a crepapelle mentre gira una scena in cui Chappie chiama una barbie “mamma”.
Perchè è questo che bisogna aspettarsi, da Humandroid: sgombrate la testa dalle teorie sull’intelligenza artificiale, dalle domande sulla coscienza “mobile”, dal discorso sugli outsider che sono i veri eroi e sull’amore tra i diversi, dalle considerazioni sul progresso (fanta)scientifico strumentalizzabile come arma di distruzione di massa. Sgombratela del tutto, di tutto.
Perché anche se Humandroid sfiora queste tematiche (e a volte assegna qualche sottile colpo ben diretto, vedasi le parole di Ninja a Chappie sui “due cani”), la sua essenza e il suo scopo sono quelle dell’intrattenimento più basic. Vedetelo e consideratelo come un film Disney (e non Pixar!) un po’ grezzo e tamarraccio, che nel finale deraglia in svolte che verrebbero applaudite in qualsiasi anime sci-fi (non necessariamente demenziale). Al massimo, Humandroid è il fratello minore e allegramente immaturo di RoboCop. Prendere o lasciare.
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Grazie!
Oddio, credo che l’unico
modo per farselo piacere davvero sia quello di considerarlo una
parodia di Robocop e nulla di più. Sicuramente ci sono buone idee:
la scelta lombrosianamente convincente della trashissima coppia di
gangster (che ho scoperto essere due rapper sudafricani) che di fatto
sono un film nel film, il “ritorno al Distretto” e tutto il
comparto effetti visivi, davvero fuori parametro. Detto ciò, la
cadute di stile non si contano: il finale è davvero scritto
malissimo, ci sono plot hole grandi come case e alcuni personaggi,
tipo Jackman che per metà film vaga ramingo e sembra uscito da
George, Re della Giungla, più che villain sembrano caricature dei
cattivi (per tacere della oramai mummificata Weaver, che m’ha messo
addosso una tristezza che levati). La cosa migliore è l’OST di
Zimmer che quest’anno davvero non ne ha sbagliata una.