Quando una decina di anni fa mi capitò di vedere A Cena con un Cretino (Jay Roach, 2008) – remake della commedia francese La cena dei Cretini (Francis Veber, 1998), a sua volta tratta da una pièce teatrale allestita dallo stesso regista – non riuscii a capacitarmi della indiscutibile attrattiva esercitata dai tableaux empaillés realizzati con i topolini antropomorfi – opera degli indimenticati fratelli Chiodo (Killer Klowns from Outer Space).

Non solo perché la loro presenza, ben oltre il dato immediatamente comico, rendeva conto dell’universo intimo (complicato anche solo da descrivere) del bizzarro protagonista Barry (un uomo petulante e bisognoso di attenzioni, ma anche estremamente sensibile), ma soprattutto perché l’interprete era il bravissimo e versatile Steve Carell, attore votato alla commedia demenziale che dello slapstick aveva, da qualche anno, fatto una missione di ri-legittimazione. In quel film Carell riusciva, con la grazia recitativa di chi sa comunicare attraverso i gesti di un corpo frenetico e inadeguato, la placidità della solitudine e la tragicità del sentirsi diversi – perfettamente esemplificati nella perizia e nella pazienza necessarie per portare a termine i diorami con i topolini. La potenza espressiva dell’opera finale mostrata durante la cena, capace di ribaltare le dinamiche comiche del film per catapultare lo spettatore nell’universo delicato e affascinante di Barry, permetteva a Steve Carell non solo di rubare la scena a Paul Rudd – protagonista ufficiale del film – ma a tutta la pantomima accettata fino a quel momento.

Mentre osservavo Benvenuti a Marwen – in sala da una settimana e probabilmente per poco tempo ancora – non ho potuto fare a meno di pensare che quel film e quel momento dovevano aver fatto breccia anche nel cuore di Robert Zemeckis se per il suo atipico biopic – ispirato alla vita dell’artista Mark Hogancamp – la scelta fosse ricaduta proprio su Carell. Il tema dopotutto è lo stesso: la crudeltà dell’uomo nei confronti della diversità e il rifugiarsi del diverso in una realtà alternativa dove a regnare siano i suoi valori e i suoi fantasmi. Se in A Cena con un Cretino la declinazione era comica, e tutto sommato i toni risultavano smorzati, in Benvenuti a Marwen il clima appare più drammatico, seppur calato nello spettro fantastico della percezione di Mark. Robert Zemeckis opta per una scelta oculata di rimodulazione del biopic mettendo sullo stesso piano la storia (tragica) di Hogancamp e il suo lavoro (interpretativo) per raccontare non solo i fatti, ma anche e soprattutto le relative elaborazioni mentali ed emotive, passando senza soluzione di continuità dalle patetiche oggettive su Hogancamp alle “soggettive oggettivate” di Marwen, in cui il pilota (alter-ego) Hogie e un manipolo di donne sexy e irriducibili si battono per tenere a bada nazisti respawn e una strega dell’oblio.

Invece di lasciare che l’espressione artistica di Hogancamp funga da indizio o metafora della sua condizione e delle sue preoccupazioni, limitandosi a raccontare una sommaria storia di espropriazione e rivendicazione, Zemeckis sceglie di varcare la soglia tra reale e fantastico – o meglio, tra accaduto e ri-elaborato – per trattare le inclinazioni e i turbamenti di un uomo ferito e di un artista dall’interno, assegnando ruoli e simboli che se conservano una traccia significativa è grazie alla memoria (personale e collettiva) e non al presente. Al posto del flashback, Zemeckis predilige l’astrazione animata, pulsante di accezioni e riferimenti, che è tanto più emblematica di un fugace ricordo (qui, peraltro, strappato via per sempre). Il regista ci dice che l’espressione artistica – quella di Hogancamp, ma anche la sua – è uno straordinario esempio di mappatura non solo dei fatti, ma anche e soprattutto della ricezione e giudizio di quei fatti, ed è in grado di dirci degli uomini e della società molto di più di quello che ci direbbero la Storia o le storie nude e crude. E infatti il film è pieno zeppo di licenze e citazioni, non solo della filmografia di Zemeckis, ma anche del quel cinema che, con tutta probabilità, egli ama.

In pratica Zemeckis fa un po’ quello che il “cretino” Barry faceva con i suoi topolini: ruba la scena al pietismo e ne fa puro spettacolo. E vince.



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