L’Italia è stato uno degli ultimi paesi occidentali a sperimentare la tragedia della guerra civile. Mentre gli anglo-americani sfondavano le linee tedesche, la partigianeria flagellava le retrovie dell’Asse, spostando l’ago del conflitto verso la totale debacle nazifascista.

Anni più tardi abbiamo redatto una Costituzione, reso illegale l’apologia del fascismo, e abbiamo scelto un futuro repubblicano anziché monarchico. Indipendentemente dalla cronaca storica, oggi più che mai revisionata, e dai giochi politici che hanno permesso alla memoria antifascista di vacillare decennio dopo decennio, un fatto resta chiaro: la guerra civile d’Italia, combattuta fra il 43’ e il 45’, ha causato oltre centomila morti.

Dal secondo dopoguerra a oggi, numerosi conflitti intestini dal medesimo carattere si sono susseguiti in tutto il mondo, generando barbarie e crisi umanitarie senza precedenti: dallo Yemen alla Siria, passando da una nazione all’altra del continente africano. Noi contemporanei abbiamo metabolizzato la guerra civile come uno status d’arretratezza; qualcosa di inverificabile nel moderno e supremo occidente. Eppure tutti quei meccanismi, apparentemente perfetti, che ne dovrebbero scongiurare l’avvento, appaiono giorno dopo giorno sempre più erosi e malfunzionanti. La recrudescenza dei nazionalismi mascherati da finte democrazie, censura e repressione, propaganda, oltre a condizioni sociali sempre più precarie, dovrebbero far riflettere sulla fragilità del nostro sistema…quello del perfetto giardino ordinato.

È’ tra le crepe di queste certezze che si incastra Civil War del mai troppo acclamato Alex Garland, autore britannico già noto a pubblico e critica per il meraviglioso Ex-Machina (che ne segna ufficialmente il debutto alla regia), romanziere prima ancora che regista (The Beach su tutti), nonché sceneggiatore di opere come 28 Giorni Dopo, Sunshine, oltre al reboot di Dredd. Un autentico poliglotta della narrazione.

Dal termine della Guerra Civile nel 1865, negli USA lo spettro di un suo ipotetico ritorno è stato più volte portato in auge dalla finzione. Alcuni ricorderanno la commedia nera di Joe Dante del ’97, La Seconda Guerra Civile Americana, o il romanzo di Andrew Macdonald, I Diari di Turner. Eppure nessuno prima di Garland aveva deciso di mostrarla nel modo più autentico e meno esplorato: attraverso l’obiettivo di un gruppo di fotoreporter.  

Un autocrate, un terzo mandato illegale e il conseguente secessionismo di Texas e California: queste sono alcune delle poche, pochissime informazioni che l’autore ritiene opportuno darci. Un conflitto armato apparentemente senza quartiere, con una contrapposizione di forze tutt’altro che chiara: neppure un bieco epigono del Generale Lee, nessuna carica di cavalleria, nessuna epica inscenata da un gruppo di rievocatori e nostalgici. Solo bande armate ed eserciti più o meno organizzati che si oppongono fra loro. Mancano gli ideologi, mancano quei grandi motivatori utili a vendere la guerra. Dopo quattordici mesi, pare esserci solo disordine, autoritarismo e devastazione. L’ottima mano registica di Garland offre piani di macchina che a fatica si discostano da ciò che abbiamo imparato ad amare dal cinema catastrofico. Non c’è molta differenza fra alcune inquadrature qui proposte, e quelle già viste in 28 Giorni Dopo. Solo che qui non ci sono zombie e aberrazioni varie, ma donne e uomini intenti a uccidersi. Ricordate quel dialogo di Christopher Eccleston proprio in 28 Giorni Dopo: “Questo è quello che ho visto nelle quattro settimane successive all’infezione. Persone che uccidono persone, che è più o meno quello che ho visto nelle quattro settimane prima dell’infezione, e nelle quattro settimane prima ancora, e prima ancora, e per quanto mi ricordi. Persone che uccidono persone, il che, a mio avviso, in questo momento ci mette in uno stato di normalità”. Alex Garland è rimasto coerente con ciò che raccontava vent’anni fa.

Raccontare, o per meglio dire, mostrare la guerra attraverso un obiettivo è oggi più che mai attuale; anzi, potremmo quasi dire che lo è sempre stato. C’è sempre stata una guerra da mostrare e servire al notiziario delle venti, solo che qui non c’è quasi più nessuno che cena attorno a un tavolo mentre guarda la CNN. Eppure resta necessario continuare a mostrare l’orrore, non per denaro, e forse neppure per prestigio; magari per puro automatismo (cosa sono se non questo? Un fotoreporter di guerra), ma qualcuno dev’esserci lì, dove si combatte e si muore, proprio come i nostri protagonisti. Kirsten Dunst, autorevole, gelida e apparentemente provata da anni di scatti efferati, Wagner Moura, perennemente in bilico fra l’eccitazione e l’escandescenza, Stephen McKinley Henderson, troppo vecchio o troppo saggio, e infine Cailee Spaeny, giovane, ingenua, ma altrettanto coraggiosa e tutt’altro che indifferente nei confronti della Storia che cambia attorno a lei. Prove attoriali eccelse, senza esclusioni. L’emotività traspare anche attraverso la dura scorza di chi, la morte, è abituata a imprimerla in uno scatto; perché anche l’abitudine ha i suoi limiti, in particolare in questa guerra, dove tutti, nessuno escluso, hanno un bersaglio disegnato addosso.

Non voglio stancare con i parallelismi, ma Civil War non è solo una storia fantapolitica su un presunto reportage. A tratti, come nel più comune zombie movie, è anche una storia di sopravvivenza. In un paese massicciamente armato, dove l’ordine sembra essersi ridimensionato, muoversi con una casacca con su scritto “press”, non rappresenta più alcuna immunità. Non si è protetti né dai proiettili vaganti, né da chi reputa i giornalisti una parte attiva nel conflitto. Ed ecco che subentra la cautela, l’occhio vigile, che rimane aperto durante il dormiveglia. D’altronde tutti sembrano spararsi contro, a volte anche per il solo gusto di farlo, come il cecchino appostato che non vede l’ora che qualcosa di vivo (e magari bipede) gli passi nel reticolo.

Il film non sottolinea arbitrariamente buoni e cattivi. Anzi, talvolta sembra quasi ribaltare la realtà. Ci sono i filo-governativi da una parte, che sparano a chiunque – giornalisti compresi – e dall’altra dei miliziani (quella delle milizie è una fenomenologia assai diffusa negli USA) in camicia hawaiana (Boogaloo Boys? Non erano tutti neofascisti e reazionari?). Non si può, inoltre, non notare come proprio il Texas, fucina conservatrice per antonomasia, sia proprio uno degli stati che si è per primo contrapposto al governo autocratico (assieme alla California, storica roccaforte Dem). Dicotomie sfumate e a tratti volutamente confuse.

In questa baraonda, il sound design regna sovrano come non capitava di udire da tempo. Un sonoro profondo e feroce, capace di alternare il puro silenzio che domina gli scatti fotografici al fischio roboante dei proiettili esplosi. Il cuore sussulta frequentemente, complici momenti al cardiopalma di assoluta bellezza e rarità, oltretutto enfatizzati da una fotografia a dir poco magistrale; che sia questa diurna o notturna.

Civil War è stato negli ultimi mesi accostato alle conseguenze di una possibile nuova Presidenza di Donald Trump, vuoi per aver quest’ultimo incitato i fatti di Capitol Hill, vuoi per i provvedimenti giudiziari e le indagini del F.B.I.; eppure lo stesso autore ha negato questo parallelismo, sottolineando al contempo le ragioni della sua scelta. Il tema della guerra civile è un tema storicamente rilevante nel tessuto sociale degli Stati Uniti. Perché se da una parte le generazioni contemporanee hanno quasi del tutto rimosso quel ricordo polarizzante, dall’altra c’è una fetta di paese che sente di avere ancora dei conti in sospeso. Diverse sono le municipalità nel sud del paese dove la bandiera confederata sventola sopra i luoghi pubblici. Diverse sono le realtà, nascoste un po’ ovunque nell’etere di internet, dove si promuovono teorie cospirazioniste folli e che incitano al secessionismo (che va ricordato, è severamente illegale). Diversi sono i figuri che inneggiano a emendamenti e a vecchi dogmi oramai persi nel tempo, con il solo scopo di promuovere il suprematismo etnico a danno delle minoranze. In altre parole, per alcuni una seconda guerra civile sarebbe auspicabile. La parola giusta è: divisione.

Oltre questo, il film è un inno a tutti coloro il cui impegno nella vita è quello di raccontare l’orrore della guerra. Raccontare e mostrare i fatti affinché altri facciano le loro considerazioni; affinché altri si mobilitino e intervengano. C’è chi rischia la vita affinché questo accada, e c’è chi la vita la perde affinché tutti sappiano. Non può non tornarmi in mente Shireen Abu Akleh, reporter palestinese assassinata da un cecchino israeliano l’11 maggio 2022. Così come non posso non ricordare gli oltre cento giornalisti ammazzati nel 2023, con buona parte di loro solo a Gaza; e la strage continua. Che sia uno scatto analogico o digitale, l’incredibile Civil War di Alex Garland mostra, volontariamente, il duro mestiere del reporter di guerra; un lavoro verso cui, tutti, dobbiamo essere riconoscenti.



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